PALERMO. «Zombie dello Stato Islamico» in azione, a Parigi come a Istanbul. Marco Lombardi, responsabile del centro studi sul terrorismo «Itstime» dell’Università Cattolica di Milano, usa proprio quella definizione per indicare gli autori di alcune delle più recenti, efferate, stragi jihadiste. Lo studioso spiega: «Un tempo si parlava di cellule, da un lato, e di lupi solitari, dall’altro. Le prime rimandano a una struttura di gruppo altamente organizzata e competente, i secondi a interventi autorganizzati e poco competenti. Gli zombie sono qualcosa che sta in mezzo. E certo hanno un notevole addestramento, perché sono quasi tutti combattenti di ritorno». Il Califfato, fedele al proprio motto, combatte in Siria e Iraq per consolidarsi ed espandersi. Intanto, semina terrore nel mondo. Questa è la «guerra ibrida»? «Sicuramente. Papa Francesco l’ha definita senza mezzi termini: Terza guerra mondiale, combattuta a spizzichi e bocconi. Era il 2014 e la Nato stava codificando il concetto di “guerra ibrida”. Siamo di fronte a una pluralità di microconflitti in giro per la Terra, ma tutti interconnessi tra loro. Lo stiamo vivendo e vedendo proprio adesso perché in pochissimi giorni abbiamo avuto attacchi in Egitto, Turchia, Daghestan, Indonesia, Burkina Faso, Somalia. Eccessivo dire che fanno parte dello stesso disegno, tuttavia rientrano in questa frammentazione di un conflitto che ha una sua unità». Sciiti contro sunniti, Iran contro Arabia Saudita. Il Daesh è solo un danno collaterale? «No. I danni collaterali, forse, siamo... noi. Tanto Occidente pensa a un Islam unitario, mentre la frattura sunniti-sciiti è enorme al suo interno. Arabia Saudita, che vuol dire ancor di più e cioè wahabiti (corrente fondamentalista dell’Islamismo sunnita, ndr), contro Iran rappresenta questo. In mezzo sta evidentemente il Daesh, perché rientra nella pluralità di gruppi che in questa guerra vuole emergere. Ecco perchè dico che i danni collaterali siamo noi, in quanto pensiamo di essere al centro degli assalti terroristici...». Invece, non lo siamo? «Lo siamo, ma solo perché è importante per ciascuno di questi gruppi dimostrare di avere una capacità operativa in modo da vincere rispetto alla loro reale controparte. Sciita o sunnita che sia». Il suo gruppo di ricerca ha studiato l’evoluzione del linguaggio dell’Isis, analizzando il suo magazine on-line Dabiq. Quali sono le parole-chiave dell’organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi? «Ce n’è una sola che torna esclusivamente con Daesh. È la parola Stato. Nessun gruppo, nessun radicalismo islamico aveva finora usato quel termine. Torniamo indietro di dieci anni, quando esisteva la formazione terroristica dello “Stato Islamico dell’Iraq” che ha, poi, dato vita all’Is. L’Islamic State. Ecco la parola-chiave per comprendere questo fenomeno. Sin dal suo sorgere, infatti, obiettivo e missione del Daesh è stato farsi riconoscere come Stato». Anche grazie alla Rete, i foreign fighters sono più che raddoppiati lo scorso anno. Possibile spiegare le ragioni di tanta capacità attrattiva esercitata dal Regno dell’Orrore? «Piacerebbe a tutti capirlo. Partiamo, comunque, da un dato: oggi, abbiamo 5 mila foreign fighters di origine europea. Il che è tanto da un lato, poco da un altro. Sono tanti perché è sufficiente che un bastardo torni indietro e faccia saltare in aria un supermercato per provocare un disastro. Sono, però, pochissimi in termini statistici rispetto a tutti quelli che potrebbero essere irretiti per caratteristiche socio-demografiche». Internet fa paura: significativo come il governo turco abbia risposto agli attentati con una norma che censura siti e social network. Il cyberspazio, una minaccia o un’opportunità? «Internet è una grandissima opportunità del mondo globale e non può essere fermata. Deve, peraltro, essere ancora pensata in tutte le sue potenzialità e nelle sue possibilità legittime di controllo da parte dei governi. È senza senso ciò che fanno i turchi. Non è assolutamente possibile. Nello specifico, poi, troppa gente gioca sulla Rete. Come Anonymous». Perché? «Perché si divertono a lanciare allarmi infondati, basti pensare a quello su un possibile attacco a Firenze per il 31 dicembre, e “hackerano” siti che oggi sono giù ma domani sono daccapo su con un nome leggermente diverso. Chiudere la Rete, quindi, non ha proprio senso. E, poi, mi lasci dire: se c’è una componente più che ambigua nella componente anti-Isis, quella è assolutamente la Turchia. Erdogan ha usato il Daesh per mantenere la propria satrapia sul Paese». Dalla Francia al Mali, passando per Egitto, Tunisia e Turchia, l’industria turistica è bersaglio prioritario degli jihadisti. Perché? «Il nostro team, “Itstime”, sta lavorando da tempo con grande attenzione proprio su questo comparto. Colpire l’industria turistica è un ottimo strumento per raggiungere i propri obiettivi, ottenendo un enorme rimbalzo mediatico a livello globale e danneggiando l’economia dei nemici. Ricordiamoci che, nella settimana successiva agli attentati di Parigi il 13 novembre scorso, le entrate di ristoranti e alberghi si sono ridotte del 30 per cento. Ovviamente, tutto questo deve preoccuparci perché la mobilità è un segno del mondo globale cui non possiamo assolutamente rinunciare. Difendere il comparto turistico, quindi, significa innanzitutto garantire libertà». Gestire la paura: è la sfida più impegnativa del nuovo millennio? «Ha detto bene. Gestire la paura è sempre stata la sfida quotidiana dell’uomo, ma per farlo occorre una grande capacità di governance. Cioè, dare gli strumenti cognitivi per governare la paura. Purtroppo, questo manca. È uno dei maggiori problemi del nostro tempo, perché va di pari passo con la mancanza di una governance globale che attualmente non esiste ancora».