ROMA. Benzina sul fuoco, tensione alle stelle. L'escalation era già scritta: l'esecuzione in Arabia Saudita dell'imam sciita Nimr Al Nimr, la rabbia dell'Iran che giura vendetta, e un nuovo, violentissimo scontro confessionale tra sunniti e sciiti che rischia di infiammare tutto il Medio Oriente, con inevitabili ripercussioni sulla lotta al Califfato. Ma la miccia che ha fatto esplodere l'incendio, inevitabile pure quella? Perché Riad ha giustiziato Al Nimr? Per Gianandrea Gaiani, direttore di «Analisi Difesa», magazine web di politica e analisi militare, esistono almeno due motivazioni, una interna e una esterna. «L'obiettivo interno dei sauditi - secondo Gaiani - è dare lo stesso volto al nemico: definire terrorista chiunque faccia opposizione al regime sunnita. Serve a dimostrare, sul piano interno, che la monarchia non avrà alcun cedimento sulla minoranza sciita, e serve a consolidare il regime al potere rispetto ai leader religiosi wahabiti, che garantiscono il supporto sociale alla monarchia. Questa motivazione, almeno da un punto di vista ideologico, avvicina il regime saudita all'Isis, che ha come suo principale obiettivo non gli infedeli cristiani ma la guerra agli sciiti, e aumenta le similitudini tra l'Arabia Saudita e lo Stato islamico».
E la motivazione esterna?
«L'esecuzione ribadisce la volontà saudita di contrastare l'Iran, e in generale tutto il mondo sciita, continuando questa guerra su due fronti bellici importanti, quello yemenita, dove i sauditi guidano una coalizione che combatte gli sciiti; e quello siriano, dove Riad si è posta alla testa di una coalizione islamica che sulla carta dice di voler neutralizzare il Califfato, ma che in realtà mira a un altro interesse: rovesciare il governo di Bashar al Assad, regime guidato dalla minoranza alawita che fa parte del mondo sciita. E difatti, dopo i primi raid nel settembre 2014 - per lo più simbolici - contro l'Isis, sul piano militare Arabia Saudita e monarchie del Golfo finora non hanno fatto nulla di concreto. E se avessero davvero fatto guerra al Califfato sarebbero stati di certo fermati dall'opinione pubblica, che già durante quei primi raid contro le postazioni del Daesh accusò i propri governanti, soprattutto attraverso i social media, di uccidere i "fratelli" sunniti dell'Isis anziché colpire il "nemico" sciita. Non a caso, a un sondaggio realizzato nel 2014, che chiedeva ai sauditi se l'Isis fosse rispettoso dei principi coranici, circa il 97% rispose di sì».
Quali conseguenze possono avere in Medio Oriente le nuove tensioni tra Riad e Teheran?
«Va fatta una premessa. Credo che la crisi attuale nasca dalla percezione che l'Arabia Saudita ha dell'Iran dopo l'accordo sul nucleare voluto dagli Stati Uniti e a ruota dall'Ue, accordo che di fatto non impedirà all'Iran di diventare potenza atomica, e che ha spinto Riad a temere ancor di più Teheran e a puntare, a sua volta, allo sviluppo del nucleare. Partendo da questo presupposto, la tensione tra i due Paesi può portare a due livelli di escalation. Il primo potrebbe essere una recrudescenza del conflitto in Yemen e in Siria, dove l'Iran sostiene Assad mentre l'Arabia Saudita appoggia i ribelli. Il secondo, ben più grave, potrebbe portare a delle schermaglie nella regione del Golfo, o a un vero e proprio conflitto, con conseguenze disastrose. In quest'ultimo caso - anche con schermaglie e missili di avvertimento - si chiuderebbe un'arteria vitale per il commercio del petrolio, con danni ingenti per tantissimi Paesi: il Giappone, la Cina, l'Ue, l'India e tanti altri, e una caduta libera del prezzo del greggio, già in picchiata».
In Siria ne trarrebbe vantaggio il Califfato?
«In realtà, come dicevo, ci sono dei Paesi che non hanno mai voluto la sconfitta militare dell'Isis, e tra questi ci sono sicuramente le monarchie sunnite del Golfo. Il Daesh è lo strumento militare attraverso il quale si è impedito il collegamento della Mezzaluna sciita, cioè tra Iran, Iraq e Siria, fino al sud del Libano (con Hezbollah). Lo Stato Islamico, guarda caso, si è sviluppato grazie alle armi e ai soldi che arrivano dalle potenze sunnite del Golfo, e proprio tra Siria ed Iraq, ad interrompere quella Mezzaluna. Paradossalmente, se si arrivasse a un confronto diretto tra sauditi e iraniani, avremmo uno schieramento strategico molto più chiaro rispetto allo scenario ingarbugliato che abbiamo oggi, dove Paesi che si dichiarano nemici dell'Isis sono in realtà amici del Califfato. E capiremmo, una volta per tutte, che il Daesh è una pedina fondamentale di un'alleanza sunnita che combatte contro un'alleanza sciita».
Che posizione prenderà l'Occidente adesso?
«L'esplosione di un conflitto tra Arabia Saudita e Iran sarebbe il coronamento della politica disegnata dagli Stati Uniti durante tutta l'amministrazione Obama. Gli americani stanno lavorando da anni alla destabilizzazione del Medio Oriente, e lo dimostrano diversi fatti: si sono ritirati dall'Afghanistan annunciando questa mossa cinque anni prima; hanno abbandonato l'Iraq poco prima di completare la stabilizzazione del Paese; contro l'Isis, in un anno e mezzo di conflitto, con interventi ridicoli, hanno fatto tanto quanto i russi in soli tre mesi; e poi l'accordo sul nucleare con l'Iran, che ha fatto inviperire i sauditi. Mi stupisco ancora quando sento dire che Obama ha sbagliato la politica estera perché in Medio Oriente non è arrivato a risultati concreti. Penso invece, semplicemente, che il numero uno della Casa Bianca abbia perseguito obiettivi diversi da quelli di Bush, e non certo per ragioni politiche».
In che senso? Quali sarebbero le reali motivazioni?
«L'America di dieci anni fa aveva interesse a mantenere stabili le aree petrolifere, perché le servivano. L'America di oggi, sul piano energetico, è autosufficiente e in futuro diventerà il più grande esportatore di energia. Non ha più bisogno di spendere i suoi uomini e i suoi dollari per stabilizzare il Medio Oriente, viceversa, può avere tutto l'interesse nell'instabilità di questa regione, perché il petrolio e il gas che da lì provengono sono ancora fondamentali per la sopravvivenza dei maggiori competitor degli Stati Uniti, a cominciare dalla Cina».
E dall'Unione europea, che reazione dobbiamo aspettarci?
«Come sempre seguirà a ruota Washington. Quello che mi rattrista, in questo scenario, è sapere che l'Europa, nonostante abbia tutto da perdere da questo caos, dalle tensioni e dalla destabilizzazione in Medio Oriente, consideri ancora gli statunitensi alleati in politica estera. In realtà, già da anni, l'America non è più alleata dell'Ue, non per cattiveria, ma per interessi economici opposti a quelli europei. E il fatto che Bruxelles non sia mai riuscita a mettere in campo una mediazione seria per la pace nello scacchiere mediorientale, dimostra palesemente tutta l'incapacità e l'inconsistenza di un'Europa che esiste e si fa sentire soltanto quando si parla di tasse e spread».
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