ROMA. Macedonia, Montenegro, Albania, Serbia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo. Sei nazioni, 6 milioni 260 mila abitanti di fede islamica, 640 «combattenti stranieri» al servizio del Califfato. I Balcani vengono indicati in un recente rapporto del Cemiss - il Centro di Studi Strategici del Ministero della Difesa - come «una delle aree a maggioranza non musulmana con la più alta propensione alla jihad». Alberto Becherelli, ricercatore di Storia dell'Europa orientale alla «Sapienza» di Roma, conferma i motivi di allarme: «Cause politiche, economiche e sociali sono tra le ragioni che fanno dei Balcani ancora un buco nero del continente, con forte presenza di economie mafiose e corruzione politica che contribuiscono a fornire ai jihadisti ciò di cui più hanno bisogno. Le armi. In particolare, quelle croate e serbe». Il «virus-Isis» si diffonde in Europa. I Balcani costituiscono uno dei più inquietanti focolai di infezione? «I Balcani, nel loro ruolo storico di ponte tra Oriente e Occidente, sono ancora oggi come nel corso dei due secoli precedenti al centro di fenomeni di eccezionale portata storica. Nel caso recente, l'ingente flusso migratorio che dal Medio Oriente in fiamme si dirige verso l'Unione europea nella speranza di garantirsi un futuro lontano dalla guerra e dalla disperazione. Le critiche condizioni politiche ed economiche della regione la rendono un terreno fertile per il sorgere di fenomeni di radicalismo politico o religioso, ma non direi che i Balcani costituiscano un focolaio di infezione più inquietante di altre aree del continente. Gli attentati di Parigi, ad esempio, non mi risulta abbiano visto partecipazione di «balcanici». Piuttosto, erano jihadisti dalle banlieue francesi. Possibile, invece, che qualcuno si sia servito della rotta balcanica per giungere in Europa». Ormai da tempo, il fondamentalismo islamico trova terreno fertile in quella regione. Perché? «Perché i Balcani vivono da secoli una crisi endemica che ha trovato forme di parziale attenuamento solamente in quei periodi storici in cui forme statuali forti e sovranazionali hanno saputo imporre la propria «pax» su una regione coabitata da nazionalità con tante affinità e altrettante differenze. In un contesto dove sono stati storicamente compresenti cattolicesimo, ortodossia, ebraismo e Islam, l'identità religiosa ha finito con il coincidere con quella nazionale. È il caso di serbi, croati e bosniaci musulmani (i Bosniaks), nazionalità affini e divergenti al tempo stesso. Sia chiaro, comunque, che il fondamentalismo islamico nei Balcani è un fenomeno ampiamente marginale». Un analista di antiterrorismo, Dzevad Galijasevic, ha recentemente riferito che alcune comunità della Bosnia - da Dubnica a Serica - applicano la sharija, la legge coranica. Un'esagerazione? «Dževad Galijaševi? è un personaggio contraddittorio e piuttosto discusso in Bosnia-Erzegovina. Si tratterebbe in ogni caso di fenomeni molto marginali che non possono essere usati per generalizzare la situazione del Paese. È vero: nelle campagne bosniache è possibile trovare mujaheddin che sono rimasti in Bosnia dopo il conflitto del 1992-1995 e hanno sposato donne del luogo, così come comunità salafite e nella stessa Sarajevo non è poi così difficile incontrare wahabiti o donne completamente coperte». E adesso? «La guerra degli anni Novanta ha portato a un risveglio religioso dovuto semplicemente al fatto che nell'ex Jugoslavia identità religiosa e nazionale sono spesso uno stretto connubio. E le leadership nazionaliste hanno avuto tutto l'interesse a favorire tale risveglio per mantenere inalterato lo stato delle cose e il loro potere. Sono questi i veri problemi della Bosnia-Erzegovina, un Paese con disoccupazione al 40 per cento circa. L'Islam si radicalizza sui disagi delle società occidentali». Troppo vicini i Balcani perché l'Italia possa sentirsi tranquilla? «L'Italia non ha nulla da temere dai Balcani, non bisogna rischiare di marginalizzare un'area che già ha conosciuto e conosce gravi criticità. Bisogna anzi rilanciare il processo di adesione dei Paesi balcanici all'Ue. L'emarginazione dell'area balcanica può solo contribuire a incrementare i fenomeni di radicalismo».