PALERMO. Facciamo il punto. Alcuni dei nostri amici sostengono i nostri nemici, e alcuni dei nostri nemici sono nostri amici, e alcuni dei nostri nemici stanno combattendo contro altri nostri nemici che vorremmo che perdessero ma, d'altra parte, non vogliamo neppure che i nostri nemici vincano. Se quelli che vogliamo sconfiggere verranno sconfitti, potrebbero essere sostituiti da gente che ci piace ancora meno. Tutto qui. Chiaro, no? Ci dicono che siamo in guerra. Una guerra senza trincee, dove il nemico - quello vero o quello che vuole emularlo - può sbucare mentre sorseggi un caffè al bar o, come è successo ieri, scatenare comportamenti mitomani e spingere un maestro a inventarsi un'aggressione: «Bisognerebbe capire perché l'ha fatto», spiega Daniele La Barbera, direttore della Scuola di Psichiatria di Palermo. «Potrebbe trattarsi del desiderio di perverso protagonismo che permette al soggetto mitomane di provare una forte emozione nel procurare allarme, di aumentare lo stato di tensione generale che attualmente viviamo, e di accrescere il senso di insicurezza che ci portiamo dentro. Il gesto dimostra una grande immaturità narcisistica. Un'altra lettura potrebbe condurre al tentativo di ingigantire il timore nei confronti dei terroristi: un'altra condotta esecrabile e ai limiti della psicopatologia». La propaganda dei fondamentalisti dell'Isis, comunque, aveva già indicato nel sistema scolastico francese un bersaglio prioritario e il magazine francofono dei terroristi "Dar al Islam" aveva chiesto ai genitori musulmani di ritirare i loro figli dalle scuole francesi e di «uccidere i professori che insegnano la laicità in un sistema miscredente». «Nell'educazione e nei modelli pedagogici occidentali noi troviamo le risorse per fronteggiare, a livello esistenziale e culturale, la minaccia del terrorismo. Cultura ed educazione sono le armi che abbiamo a disposizione per mantenere in vita una relativa stabilità. E la scuola è un luogo importante anche dal punto di vista simbolico». La propaganda fondamentalista attecchisce soprattutto negli individui più vulnerabili - anche per l'età - e marginalizzati nella società. Fa leva sui sentimenti di ingiustizia, esclusione o umiliazione, provati da alcuni per circostanze della propria vita, problemi familiari o economici. Subentra così un processo di identificazione con la minoranza ribelle, la quale si scaglia per vendetta contro la stessa società che causa il disagio che il giovane prova. Fila? «Sì, perché in un progetto del terrore i giovani occidentali vedono possibilità straordinarie di riscatto. Un emarginato che ha sempre patito carenze dal punto di vista educativo e affettivo, che non si è mai integrato, che si è sentito costantemente rifiutato, trova un suo spazio. L'Isis oggi offre a questi emarginati la possibilità di vendicarsi e di dare un senso alla propria vita, percepita come inutile». Quest'ultimo aspetto viene enfatizzato dalla glorificazione che gli estremisti fanno dei martiri nei loro video e discorsi, narrandone in modo epico le "eroiche" gesta. «I giovani occidentali subiscono la suggestione, la fascinazione del richiamo terroristico. I militanti sanno dare risalto alle proprie azioni militari e paramilitari e ciò non può non colpire soggetti fragili e vulnerabili con percorsi esistenziali instabili, con un senso precario d'identità e difficoltà a riconoscere legami, appartenenze. Da una parte c'è la crisi del mondo occidentale, che è economica, di valori ma, soprattutto, di mancanza di senso della vita, di modelli educativi ed esistenziali, dall'altra c'è il richiamo a una vita da protagonista». L'esagerato uso della parola identità porta con sé un qualcosa di inquietante. «Un soggetto precario ha bisogno di assolutizzarla l'identità, contrapporla, teme le differenze. Ma chi possiede un'identità sana si apre alle altre, non si chiude, comprende l'arricchimento che può trarre dalla molteplicità delle identità. Non è contro ma a favore della complementarietà che non inquina le proprie categorie religiose o culturali. Che mantiene le radici ma abbraccia gli altri». Come è possibile che a motivare il sacrificio di tanta gioventù europea non sia più l'umanità, la patria, il socialismo, ma la religione, ammesso che lo sia davvero? «Per molti è davvero la religione, altrimenti non si spiegherebbe la facilità con cui si fanno fuori, si fanno saltare per aria, azioni estreme che derivano dalla certezza di approdare direttamente in paradiso». Pensare che il proprio vicino di casa, un amico o perfino il proprio figlio possa di colpo decidere di farsi esplodere in nome di un ideale estremista, lontanissimo dalla nostra cultura, è un pensiero oscuro. «Il nemico è dappertutto e la delocalizzazione ha cambiato completamente lo scenario delle tradizionali azioni militari. Ai nostri giovani richiediamo performance elevate, devono parlare tre lingue ed essere degli assi al computer. Ma loro non si sentono nessuno. È chiaro, allora, che provano un'attrazione per una vita aberrante e violenta ma "affascinante", che dà loro la possibilità di trasformarsi in eroi, negativi, ma sempre eroi». Il discorso dominante sul fondamentalismo islamico, soprattutto in Europa, spesso glissa sulle cause strutturali, sull'alienazione sociale, e riduce tutto a un'improbabile e inutile categoria di "follia" e "fanatismo". «Non è fanatismo e non è follia, si tratta di un fenomeno profondo con motivazioni complesse, profonde. Decine di migliaia di giovani, che diventano sempre di più dopo ogni attentato, vivono in un mondo che per loro non è sostenibile, è una realtà troppo piena, troppo satura di promesse, ricolma di beni. Ma questo mondo così allettante chiude lor in faccia la porta e il troppo pieno si trasforma in un troppo vuoto, la seduzione sparisce, le promesse non vengono mantenute». Che cosa abbiamo fatto a questi ragazzi per portarli a questo punto? Se alcuni giovani sono spinti a sfogare in un conflitto lontano i propri peggiori istinti, con omicidi di massa, stupri, torture, decapitazioni, di chi è la responsabilità? «Isis oggi offre a questi emarginati la possibilità di vendicarsi e di dare un senso alla propria vita, percepita come inutile. Il mondo occidentale deve interrogarsi: evidentemente abbiamo sbagliato modello educativo e culturale, approccio ai consumi e agli stili di vita». Gli esperti spiegano che l'Isis converte e recluta i "foreign fighters", soprattutto su internet attraverso tecniche psicologiche manipolative molto potenti. Quali tecniche psicologiche possono essere così persuasive da riuscire a trasformare in kamikaze dei giovani occidentali attraverso un computer e in poco tempo? «Il web è uno dei loro canali preferiti. E poi le promesse, mantenute di diventare degli eroi ha una sua grande fascinazione in personalità deboli. Ecco che i ragazzi preferiscono la barbarie arcaica e vivono una regressione che altro non è che una risposta al mondo occidentale. Se un tempo nella stessa famiglia si vivevano scontri conflittuali, oggi non più, le famiglie sono fin troppo tolleranti, non propongono dimensioni conflittuali». Le donne che si "arruolano" nell'ISIS sono destinate a un matrimonio-lampo con uomini mai incontrati prima per diventare casalinghe impegnate ad accudire la casa e ad allevare i figli e fare in modo che essi crescano sotto i principi dell'ISIS e formare la generazione futura di combattenti. «C'è una sorta di capovolgimento di ruolo piuttosto inquietante: la mamma, solitamente figura accudente e protettiva che educa alla guerra e alla violenza, e la donna stessa, spesso priva di ruolo nella società islamica, che diventa fondamentale nella veste di educatrice della prole». La radicalizzazione è il processo, graduale e subdolo, di indottrinamento che accompagna la trasformazione delle reclute in individui determinati ad agire con violenza sulla base di ideologie estremiste. «È un modo di fuggire da una realtà non sostenibile e regredire, come abbiamo detto, a modelli arcaici. Certo, l'Isis, come ogni movimento fondamentalista, adopera la tecnologia, lavora sulla persuasione e interviene sui bambini con messaggi potenti che, a poco a poco, compongono un progetto di terrore dal quale non si torna indietro, perché ogni facoltà di scelta viene compromessa e il soggetto programmato in maniera irreversibile». E non si tratta del personaggio di un videogioco.