Dalla Libia alla Siria, passando per le contraddizioni dell’Europa e le ambiguità dei Paesi del Golfo. Roberto Toscano, già ambasciatore italiano a Teheran e Nuova Delhi, non si esime dal penetrare con sguardo acuto nei molti difficili risvolti di un jihadismo sempre più complesso e perturbante, che interroga ruoli e funzioni degli organismi internazionali. «L’azione militare non basta», chiosa l’editorialista de La Stampa, «ma ciò non vuol dire che non serva».
Usa e Russia negoziano una nuova risoluzione per colpire le finanze dell'Isis. È pensabile che si possano ottenere risultati concreti in materia?
«È certo molto problematico individuare e bloccare i flussi finanziari diretti all'Isis, ma credo si possa, anzi si debba, fare qualcosa. Mi viene in mente il "metodo Falcone" per la lotta alla mafia: controllo dei flussi finanziari. La questione rimane tuttavia fondamentalmente politica, nel senso che Stati Uniti ed Europa dovrebbero smettere di fare finta di non vedere quello che da anni fa l'Arabia Saudita, cioè finanziare e sostenere ideologicamente il radicalismo sunnita e il jihadismo in tutto il mondo, dall'Afghanistan all'Algeria».
A tal proposito, resta molto alta la tensione tra Putin ed Erdogan, nel momento in cui le truppe turche si avvicinano a Mosul.
«La questione centrale per la nostra sicurezza mi sembra piuttosto chiara. Chi costituisce la minaccia principale? Se è, come sono convinto, lo Stato Islamico - con i suoi effetti destabilizzanti, il perseguimento dell'utopia reazionaria del Califfato, la promozione del terrorismo da Parigi alla California – allora i peshmerga curdi sono i nostri alleati, e la Turchia invece è uno pseudo-alleato, dato che porta avanti un gioco poco limpido nei confronti del jihadismo più radicale, facilitando il passaggio dei foreign fighters e collaborando con l'esportazione del petrolio estratto nelle zone occupate dallo Stato Islamico. Per quanto riguarda Putin, ne avremmo fatto volentieri a meno, ma lui si è inserito nel vuoto creato da un'alleanza anti-Isis composta da 65 Paesi, ma del tutto inefficace e nel caso di alcuni Paesi arabi, ambigua».
Il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk accusa Putin di essere «più parte del problema che della soluzione» in Siria. È così?
«Putin ha trovato nella crisi siriana l'occasione per uscire dall'angolo in cui si era messo con il suo avventurismo aggressivo in Crimea e Ucraina. Cita la Seconda Guerra Mondiale, ribadendo la disponibilità a collaborare con Usa ed Europa contro un nemico comune. Difficile smentirlo. Ma è davvero altrettanto indispensabile, per sconfiggere lo Stato Islamico, di quanto fosse Stalin per sconfiggere Hitler? No di certo, ma lo diventa nella misura in cui noi non siamo disposti a fare sul serio. Certamente indispensabile lo è, invece, per trovare una soluzione negoziata alla guerra civile siriana. Senza l'appoggio russo (e iraniano) Assad dovrebbe accettare un compromesso che aprirebbe la via ad una sua uscita di scena. Sia Mosca che Teheran non hanno "sposato" Assad, ma perseguono interessi concreti che andrebbero messi sul tavolo di una trattativa globale. Assad non ha futuro, ma visto che i ribelli non sono riusciti a sconfiggerlo militarmente è assurdo pretendere la sua uscita di scena come condizione per una trattativa».
La Francia si appresta a intervenire anche sul fronte libico. Non c’è il rischio di aprire un doppio fronte contro l’Isis?
«Sembra evidente che l'azione militare non basta. Ma questo non significa certo che non serva. L'Isis infatti non è certo un interlocutore politico-diplomatico, e senza un'adeguata azione militare sarebbe già arrivata a Baghdad e avrebbe sconfitto i curdi. Per quanto riguarda la Libia, si conferma oggi che distruggere uno Stato per eliminare un dittatore - come del resto in Iraq e come qualcuno vorrebbe fare in Siria - è un tragico errore. Quello che non è chiaro è chi possa ricostruire uno Stato in un Paese dilaniato da rivalità armate fra regioni, sette religiose, tribù. L'Isis ha una base territoriale in Siria/Iraq, ma sempre di più anche in Libia. Chi li può fermare? Solo una combinazione di azione militare e azione politico-diplomatica tesa a eliminare i sostegni esterni e facilitare il raggiungimento di un'intesa fra i vari gruppi in lotta. Ma le difficoltà sono scoraggianti. E ci riguardano in modo speciale, vista l'importanza della Libia per l'Italia e la sua prossimità geografica».
La Gran Bretagna bombarda, la Germania supporta. Scelte differenziate possono condurre a decisioni frammentarie?
«L'Unione europea ha recentemente affrontato in ordine sparso la questione greca, poi stenta a trovare una linea comune di fronte al flusso di rifugiati. Sul piano della sicurezza e della difesa, poi, non sembra davvero in grado di trovare una linea unica e un'azione unitaria o quanto meno coordinata. Se falliremo questa prova, dubito che l'Europa abbia un futuro. O meglio, continuerà come mercato comune e parziale unione monetaria, ma abbandonando il grande progetto di integrazione politica di tipo federale. Sarebbe una sconfitta storica, soprattutto in un momento in cui, proprio di fronte alle sfide globali, lo Stato-nazione rivela tutta la sua inadeguatezza».
Da Tunisi a San Bernardino, l’Isis sembra aver alzato il livello dello scontro: è la sindrome dell’assedio?
«Per ora lo Stato islamico sembra essere in grado di mantenere il suo controllo territoriale, in Iraq e Siria, ma la sua espansione sembra frenata dal pur limitato intervento degli alleati. Quello che sta avvenendo nelle ultime settimane è il combinarsi della dimensione territoriale con quella terrorista. In un certo senso l'Isis "torna alle origini", che sono in Al Qaida e al suo terrorismo diffuso. Non tanto come fenomeno centralizzato, ma come "franchising" di iniziative diffuse di gruppi o di individui che si ispirano all'Isis senza esserne diretti operativamente».
È possibile tentare di dialogare con i sunniti moderati, nel tentativo di dividerli dal Califfo?
«I sunniti moderati esistono sempre meno, purtroppo, ma in Iraq è indispensabile cercare di invertire la tendenza settaria e la spaccatura sunnita/sciita. È vero che i sunniti, minoranza, non hanno mai accettato che il Paese fosse governato dalla maggioranza sciita, ma è anche vero che gli sciiti hanno gestito il potere in modo settario, discriminatorio. A questo punto è molto difficile ricostruire un progetto nazionale comune, anche se sarebbe folle immaginare che la soluzione si possa ricercare in una formale frammentazione territoriale (Kurdistan, Stato sciita, Stato sunnita). Il dialogo tra sunniti e sciiti è certo indispensabile, ma molto difficile».
È recente l’accordo sulla direttiva Pnr. Quali sono le prossime mosse necessarie affinché l’Europa possa prevenire con maggiore efficacia azioni criminali come quelle di Parigi?
«Se qualcuno avesse ancora dubbi sull'inadeguatezza dello Stato-nazione, la questione del terrorismo dovrebbe risultare risolutiva. Oggi, come dimostrato dai fatti di Parigi, non vi è nemmeno un coordinamento antiterrorista sufficiente fra Francia e Belgio. Di sovranità nazionale si può anche morire...».
Il nostro premier insiste nel sottolineare che contro i terroristi la risposta passa anche dalla cultura. Una giusta considerazione?
«Verissimo che il contrasto al jihadismo violento non può essere solo militare, ma dovrà essere anche condotto sul piano culturale e su quello sociale. La frustrazione di grandi masse di musulmani, soprattutto giovani, sia in Medio Oriente che nei nostri Paesi, è prodotta da oppressione, ingiustizia, frustrazione. La Guerra Fredda non è stata vinta con i bombardamenti, anche se la capacità di difesa è stata un indispensabile deterrente contro il pericolo di aggressioni. È stata vinta sul piano dell'economia, della società, dei diritti, della cultura. Lo stesso dovrà avvenire nei confronti della sfida del radicalismo islamista».
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