ROMA. Una «pugnalata alla schiena, ci saranno conseguenze tragiche». Sembra di udire il sibilo degli F16 turchi, nella furibonda reazione di Vladimir Putin. Insieme al caccia russo abbattuto in terreno siriano, sembra improvvisamente schiantarsi al suolo la retorica della soluzione condivisa. Le musoliere delle nazioni stridono in Siria con inedito vigore. La paura torna a tuonare nei cieli di Damasco. «Mosca e Ankara consegnano nelle mani del Califfo un prezioso regalo. Si allontana ancora di più una soluzione condivisa. I personalismi consentono all' Isis di prosperare», chiosa il presidente del Centro Studi internazionali, Andrea Margelletti. La tensione tra Russia e Turchia è alle stelle. L' episodio indica che siamo sul crinale di una guerra tra Stati? «Occorre fare una seria riflessione sulla politica della Turchia di oggi. Fino a pochi anni fa, Ankara era in procinto di entrare nell' Unione europea. Ma le scelte di Erdogan hanno spostato l' asse della Mezzaluna su un terreno strategico difficilmente assimilabile a quello in cui si muovono l' Unione europea e i tradizionali alleati Nato. Più che un Paese europeo, la Turchia è oggi un Paese centroasiatico». Putin annuncia «conseguenze drammatiche». Allude a una possibile guerra contro Ankara? «È da escludere nel modo più categorico. Se Parigi val bene una messa, non così Damasco. Non ci saranno terze guerre mondiali. Pu tin risponde al proprio elettorato perché non vuol apparire come una mammoletta. La conseguenza che possiamo immaginare plausibile è che d' ora in poi i cacciabombardieri russi saranno accompagnati da un ombrello di caccia intercettori di Mosca. Sei radar turchi dovessero illuminarli, potreb bero esserci dure reazioni». È realizzare uno stato sunnita in Siria il vero obiettivo di Ankara? Qual è la vera posta in gioco, dietro le tensioni in Siria? «La Turchia punta ad avere un' influenza sull' intero Medioriente, proprio come avvenuto fino alla Prima guerra mondiale. Quella di Ankara resta una politica imperiale. L' agenda turca è molto chiara e autonoma: basti pensare che nei mesi scorsi, durante i combattimenti feroci per Kobane, le forze armate turche sono rimaste a guardare con distaccata sobrietà. La Russia vede invece la Siria in un quadro globale. In gioco c' è la permanenza degli interessi di Mosca in un' area strategica. Senza Damasco, la Russia sarebbe tagliata fuori dal Mediterraneo: diventerebbe di fatto una potenza regionale, e non più globale». Tra Ankara e Mosca c' era alta tensione da giorni. La guerra al Califfato si complica? «L' abbattimento del caccia russo è un grande regalo all' Isis. Per evitare future crisi si limiteranno i voli e si faranno mille altri distinguo. Tutte misure che renderanno ancora più difficile attuare una strategia comune contro i tagliagole». Ci saranno ripercussioni sulla strategia della coalizione occidentale a guida americana? «La coalizione occidentale è già di per sé straordinariamente impegnata a decidere che cosa vuol fare da grande. Speriamo che sganciare qualche bomba dall' alto spinga il nemico a deflettere. Ma nessuno ha voglia di mettere gli stivali sul campo. Il vero problema è al momento l' assenza di una politica unitaria». La risoluzione dell' Onu lascia intravedere qualche spiraglio, ma soprattutto grandi chiusure. «Il caso del caccia abbattuto ieri conferma che i problemi tra Stati sono superiori al raziocinio. Continuiamo a muoverci come i polli di Renzo: crediamo di essere vivi, ma non ci rendiamo conto che il nostro destino è il pentolone. È l' Isis il vero punto della questione. Ma tutti continuiamo a guardare soltanto ai nostri personalistici interessi nazionali. L' assenza di una posizione comune è deleteria: mentre i vari Stati si posizionano e discutono, il Califfo prospera». Le divergenze allontanano quindi un soluzione condivisa? «Il problema è che siamo abituati a vedere le cose secondo abitudini consolidate. Ci rifiutiamo di considerare l' Isis come un attore statuale, e continuiamo a parlarne come se si trattasse di un semplice gruppo terroristico. Ma la verità è che non è mai esistita nella storia un' organizzazione terroristica che avesse una capitale. Non sono mai esistiti terroristi che do minano su milioni di persone. E anche se abbiamo visto gruppi terroristici che avevano moltissimi soldi, non si era mai vista nella storia un' organizzazione terroristica che avesse una propria economia. Invece di considerare questi elementi come un problema fondante per la nostra sicurezza, impera ancora l' arroganza del Congresso di Vienna: "problemi tra Stati", diciamo. L' unica soluzione per abbattere l' Isis sarebbe un intervento di terra. Ma è al momento inattuabile». Lorenzo Cremonesi diceva ieri su queste pagine, che l' unica maniera per indebolire l' Isis sarebbe staccare i sunniti più "moderati" dai tagliagole, sul modello dell' operazione Petraeus. «Cremonesi ha ragione. Ma avremmo dovuto farlo tre o quattro anni fa. Il generale Petraeus fece ad Al-Anbar un'operazione straordinaria: diede soldi alle tribù per attirarle a sé. Ma quegli stessi attori hanno oggi risorse finanziarie in abbondanza. I tempi sono cambiati: non potrebbe funzionare». Dovremmo quindi capire meglio chi c'è dietro l' Isis, e prosciugarne i finanziamenti? «L' Isis estrae e vende petrolio a tutti, fa commercio di beni culturali, amministra milioni di persone. È certamente nato con la compiacenza di diversi attori regionali, ma lo Stato islamico è un' entità autonoma. Considerarlo come un pupazzo in mano a un Paese piuttosto che a un altro, è il miglior regalo che potremmo fare al Califfo». Come si esce quindi dal pantano? «Bisogna convocare una conferenza internazionale che comprenda tutti gli attori regionali e gli interessati, che faccia pulizia delle ipocrisie e dei doppi giochi di alcuni soggetti. Bisogna ricostruire una coalizione vera e concreta, che metta a fine ad azioni in ordine sparso i cui risultati sono palesi ai cittadini parigini». Ma come si risolve la questione Assad? «Non avere trovato un' alternativa ad Assad è a oggi la più grave sconfitta dell' Occidente. Ma non bisogna commettere l' errore comune di confinare l' Isis alla sola componente siriana. Non esistono più la Libia, l' Afghanistan e la Siria di un tempo. Ragionare secondo vecchi schemi e confini è un modo antico di guardare alla vicenda. I media sembrano aver dimenticato l' Iraq, nonostante gli ex baathisti rappresentino il core business dell' Isis. Il Califfato si estende tra due Stati preda di un profondo stravolgimento. Comprendere che i tempi sono mutati, è il primo passo per non continuare a commettere vecchi errori».