«De Paris avec amour», da Parigi con amore. È scritto sopra le bombe sganciate su Raqqa dai Mirage francesi. Si legge vicino alle rose, lasciate dalla gente sulle strade della Capitale. Due immagini speculari della stessa «cartolina»: l' Armée de l' air, che scatena una pioggia di fuoco sulle roccaforti siriane del Califfato, e i parigini che provano a risorgere dall' orrore di venerdì, con fiori, silenzi, canti, rientrando a scuola, al lavoro, alla vita di tutti i giorni. Osservando da Roma la reazione dei suoi connazionali Marcelle Padovani, giornalista e scrittrice, firma storica de Le Nouvel Observateur, trova la visione di insieme: «Non c'è una contraddizione, sono immagini complementari. La Francia è davvero in guerra, attaccata da un nemico che vuole metterla in ginocchio, un nemico che entra a casa tua e uccide centinaia di persone. E come accade, normalmente, in tempo di guerra, da una parte c' è un governo che risponde con le armi, dall'altra c' è una popolazione che non vuole rinunciare a una vita normale, che oppone resistenza civile al terrore e appoggia, sostiene l'azione dello Stato». Contro la barbarie, che peso può avere concretamente la reazione civile? «È fondamentale, perché è il cemento dell' azione istituzionale, e perché, ovviamente, il Jihad non può essere fermato solo con le armi. Gli italiani questo lo possono capire bene. Ho vissuto il periodo del terrorismo rosso in Italia e ho visto un Paese sconfiggere una violenza feroce solo con l' arma della democrazia, con il sostegno dell' opinione pubblica e attraverso l' unità nazionale». La Francia è rientrata nel mirino dell' Isis dopo i primi raid aerei in Siria. Col senno di poi, è stata una decisione giusta quella dell' Eliseo? E non è stata forse tardiva? «Tardiva sicuramente. Ed è stato l' errore principale: bisognava muoversi già due anni fa, ma quando Hollande propose di intervenire Obama fece di tutto affinché l' offensiva non andasse in porto. Se l' unica possibilità di difenderti è l' attacco allora devi attaccare quanto prima». «Siamo in guerra», ripetono le grandi potenze. Contro il Califfato manca unità di intenti. «Altro grandissimo errore. Mi chiedo quanto tempo ci vorrà prima di mettere d' accordo Stati Uniti, Francia e Russia sul terreno siriano. Ognuno sta intervenendo per conto proprio, e questo non ha senso. Se vuoi fare una guerra e avere chance di successo, devi farla sul serio, e per farla sul serio serve una strategia unitaria, se no hai già perso in partenza. È chiaro, poi, che per sradicare la minaccia terroristica non basterà tagliare le gambe al Daesh: può essere raso al suolo sul piano militare, ma continuare ad esercitare una suggestione, in nome della quale commettere nuove barbarie. Ed è altrettanto chiaro visto che siamo davanti a una guerra atipica, più difficile da combattere - che per vincere servirà ben altro che bombardare le roccaforti siriane. Ma da lì, nell' immediato, bisogna partire per neutralizzare quel polo che "attrae" migliaia di giovani da più parti del mondo». «Je suis français», diciamo per solidarietà, ma francese, delle banlieue parigine, era anche uno dei kamikaze. E la rete terroristica è franco -belga. Qual è la molla che spinge questa gente verso il Califfato? «La religione non c' entra, quasi per nulla. È il Daesh che dà semplicemente una "legittimità" alla "rivolta contro l' Occidente": una rivolta contro tutto ciò che i giovani musulmani, immigrati di terza o quarta generazione, stanno pagando sulla propria pelle, in Francia, in Belgio o in altri Paesi occidentali. Giovani che hanno il passaporto francese ma non si sentono francesi, non sono integrati, e hanno il rigetto per una società che li ha trattati male. Il loro odio oggi - in Francia è particolarmente forte - trova una sponda insperata in qualcosa che ha che fare con l' Islam perché pretende di essere incarnazione "statale" dell' Islam, ma il motore della violenza non è certo la religione. Viceversa, il terreno fertile dell' Isis è proprio la mancata integrazione di questi giovani in Occidente». L' isolamento, e la diffusione della xenofobia, come strategia di «avvicinamento»? «Non c' è dubbio. L' Isis vuole una comunità musulmana isolata e rigettata, vuole che il razzismo dilaghi, perché più dilaga più aumenta la capacità attrattiva del Califfato nei confronti delle comunità musulmane d' Occidente. Questa è l' unica possibilità che ha il Daesh per ricompattare persone che considera perdute. E a proposito di capacità attrattive vorrei far notare una cosa: l' Isis non parla mai dei profughi, delle migliaia di persone in fuga ogni giorno dalla Siria, perché sa benissimo che su di loro non ha alcuna presa, perché è anche dall' Isis che questa gente scappa. Di conseguenza, credo che una bella e sensata strategia da parte dei Paesi europei sarebbe quella di accogliere in massa e integrare quanto più è possibile tutti i profughi. Diventerebbero, loro, il primo, fortissimo baluardo occidentale contro il Jihad».