PALERMO. Camerati jihadisti reduci, probabilmente nelle stesse barricate, dalle sabbie siriane e irachene. Disposti e capaci di portare guerra vera nelle strade di Parigi. Un gruppo di fuoco «la cui composizione transnazionale e la stessa struttura svelano i cambiamenti della radice operativa e gerarchica del terrorismo jihadista. Che fa rete, non è un mistero né una sorpresa alla luce della presunta fuga di uno degli attentatori nel nostro Paese, pure in Italia». Lo dice Stefano Dambruoso, deputato questore della Camera dei deputati con un passato in toga sul fronte del contrasto al terrorismo islamico. Studioso, pure: suo, fra l' altro, il volume -vademecum steso insieme con Guido Olimpio nel 2004 «Milano -Bagdad. Diario di un magistrato in prima linea nella lotta al terrorismo islamico in Italia», edito da Mondadori. Foreign fighters li chiamano adesso, i pendolari del terrore, che proprio in queste ore, nella fuga affannosa dei superstiti, nella ridda di voci e smentite sullo sconfinamento in Nord Italia di uno dei carnefici di Parigi, scoprono agli occhi dell' intelligence di mezza Europa, la nostra compresa, le carte di una rete radicata. Onorevole, partiamo da un' istantanea inquietante: la presenza del presidente Hollande allo Stade de France mentre uno degli attentatori tentava di portare l' esplosivo sugli spalti. Effetto sorpresa perfetto, date le modalità inedite degli assalti? «Una o più lacune e responsabilità nell' attività preventiva dei servizi di intelligence sono evidenti, anche se, mentre ancora si contano e si onorano i morti, la misura e la concreta valutazione saranno chiare nei prossimi giorni. Ma è innegabile che nel controllo qualcosa non abbia funzionato. Ci troviamo, per la prima volta compiutamente, di fronte a un attentato composito in stile puramente bellico. Qual è la differenza con il passato più o meno recente? Più d' una: si arriva alla trasformazione del territorio ur bano in campo di guerra attraverso uccisioni casuali senza collegamenti simbolici di grande rilievo con i luoghi e le persone colpite». Protagonisti, i foreign fighters. A distanza di un decennio dai suoi primi approfondimenti editoriali e indagini, cosa è cambiato nell' identikit del terrorista? «I cambiamenti seguono le differenze organizzative e pure politiche delle strutture con le quali ci confrontiamo. Cioè fra i gruppi legati ad al Quaeda e quelli, oggi dominanti, che fanno riferimento all' Isis. Prima c' era un' organizzazione di cellule decentrate legate gerarchicamente e organizzativamente fra di loro. Dunque, sul piano investigativo e dell' intelligence, non era infrequente, in caso di cattura di uno o più militanti, poter risalire ai gradi superiori e all' organigramma. Oggi abbiamo davanti forme di terrorismo "molecolare" che annoverano persone in grado di restare in contatto, mantenere addestramento e informazioni anche dietro lo schermo di un pc. Attenzione, spesso il web serve a mantenerli, i collegamenti, fra gente che già si conosce e che assai probabilmente si è trovata insieme sulla linea dei fronti mediorientali e non solo. Organizzazioni dentro l' organizzazione, ma molto più difficili da svelare, senza considerare il singolo che assume iniziativa, come accadde a Milano con il cittadino marocchino che nell' ottobre del 2009 cercò di far strage nella caserma Santa Barbara. Quello di oggi è un network più recente, ma anche più dinamico». Nelle ultime ore, il diagramma impazzito sulla presuta fuga via Ventimiglia di uno degli attentatori di Parigi. Una scelta dettata semplicemente dalla logistica o dobbiamo temere connessioni nel nostro Paese, così come in Spagna, Belgio e in seno alla stessa Francia? «Le voci e le smentite in tempo reale fanno parte della normale rincorsa alla notizia, ma mi pare plausibile la versione fornita dal questore di Torino, che ha smentito la presenza in Italia del terrorista in que stione. Conta poco, se sia vero o meno, ai fini specifici di abbassare o meno la soglia di allarme. Comunque una rete in Italia esiste, non mi sarei meravigliato se l' attentatore l' avesse varcata davvero, la frontie ra». Nel dibattito interno, dal punto di vista normativo, è opportuno regolamentare anziché, di fatto, inibire, la costruzione di nuove moschee? «La restrizione secca serve a poco. Non possiamo non vedere che siamo immersi in un' epoca di flussi migratori mai registrati prima. Chiaro che le moschee e i centri religiosi in genere diventeranno naturale punto di riferimento per migliaia di migranti. La questione deve essere attraversata da criteri di trasparenza, non di inibizione. Si diano pure le concessioni da parte dei Comuni, ma subordinandole all' istituzione di organi - cda, board, chiamiamoli come vogliamo - con la presenza de jure di un rappresentante dell' ente locale che concede l' edificazione. Non sto parlando della Digos, ma di un controllo istituzionale che, sono certo, garantirebbe riconoscibilità e tracciabilità di atti e persone. E che, nel medio e lungo periodo, rappresenterebbe una autentica garanzia per le comunità sane, rassicurando i residenti. Evitando nello stesso tempo che certe frange continuino a nascondersi eccessivamente dietro a vittimismi legati a fenomeni di intolleranza». Scocca l' ora del Giubileo. Ai margini degli allarmi e delle richieste più o meno fondate di annullarne lo svolgimento, cosa dobbiamo attenderci? «Il Giubileo va celebrato e lo sarà. Espone a maggiori rischi dopo i massacri in Francia, ma il rischio era calcolato anche prima. Ciò significherà un investimento maggiore in termini di uomini e risorse, come già annunciato in queste ore dal ministro dell' Interno Angelino Alfano. Abbiamo superato l' Expo, fortunatamente, e non è un mistero che possediamo un' eccellente capacità di monitoraggio e di intelligence».