ISTANBUL. La Turchia torna nelle mani di Recep Tayyip Erdogan. L'appello alla stabilità del presidente turco sfonda nell'elettorato nazionalista e riporta il suo partito Akp alla maggioranza assoluta persa a giugno, tornando alle percentuali record del 2011. Con il 49,4% dei voti e 316 seggi, nel voto anticipato supera anche i sondaggi più favorevoli e promette di guidare ancora la Turchia per i prossimi quattro anni. Un risultato ottenuto nonostante il partito filo-curdo Hdp sia riuscito anche stavolta ad entrare in Parlamento superando la soglia di sbarramento record del 10%, perdendo un milione di voti rispetto a giugno ma diventando il terzo partito per numero di seggi (59) dopo il crollo del nazionalista Mhp, che si ferma a 41. Ma nel sud-est a maggioranza curda della Turchia è subito esplosa la rabbia per un risultato inatteso che spezza il sogno di fermare il cammino del 'sultanò.
Mentre ancora il conteggio dei voti era in corso, a Diyarbakir manifestanti curdi hanno appiccato incendi ed eretto barricate, scontrandosi con la polizia che ha risposto con gas lacrimogeni e una decisa repressione delle proteste. Un assaggio di quello che potrebbe succedere nei prossimi mesi se Erdogan proseguirà nel muro contro muro. In tre mesi di guerra al Pkk, oltre 150 soldati e duemila combattenti curdi sono già morti. E adesso il timore è che la guerriglia possa spostarsi stabilmente nei centri urbani. Quasi nulla cambia per il socialdemocratico Chp, ancora una volta costretto all'opposizione: con il 25,4% e due seggi guadagnati rispetto a giugno (134) si conferma secondo partito in Parlamento. A conti fatti, la partita giocata da Erdogan con il ritorno alle urne lo ha premiato. Nei 5 mesi tra un voto e l'altro, la Turchia è piombata nel caos e lui ha proposto al Paese di restituirgli il controllo come unica via per recuperare la stabilità perduta. I turchi lo hanno fatto in massa. Da giugno a ora guadagna quasi 3 milioni e mezzo di voti, sfondando quota 23 milioni e superando anche il record del 2011.
Un consenso frutto del crollo del nazionalista Mhp, che lascia per strada quasi due milioni di voti e la metà dei suoi seggi, finendo cannibalizzato dagli appelli del 'sultanò. Un successo della strategia della tensione che tanti osservatori gli hanno attribuito dopo il voto di giugno. Di certo, alle urne di oggi è giunta una Turchia ancora sconvolta dopo la strage di Ankara di appena 20 giorni fa. «Grazie a Dio, oggi è il giorno della vittoria della nostra nazione», ha esultato il premier uscente e futuro Ahmet Davutoglu davanti ai suoi sostenitori a Konya, nell'Anatolia profonda da cui proviene. Il delfino del presidente avrà in mano le carte per guidare la Turchia, ma per molti osservatori sarà un governo per interposta persona. Rimasto sotto la soglia dei 330 seggi necessaria per arrivare al referendum che gli avrebbe potuto permettere un cambiamento della Costituzione in senso presidenzialista, Erdogan sembra destinato a mantenere comunque il controllo del partito e quindi del potere. La sua figura di presidente super partes, cui lo avrebbe costretto un esecutivo di coalizione, adesso è per lui un lontano spauracchio. Da domani, e almeno per i prossimi quattro anni, sulla crisi siriana come su quella dei profughi il mondo dovrà ancora fare i conti con il 'sultanò.
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