Mercoledì 18 Dicembre 2024

Tocci: «La mano dell’isis dietro l’attentato ma i servizi turchi potevano sventarlo»

ROMA. «La pista che porta all'Isis per la strage di sabato è la più probabile. Ma da settimane si parlava di un possibile attentato ad Ankara e i servizi segreti turchi non lo hanno sventato». Nathalie Tocci, vicedirettore dell'Istituto Affari Internazionali-Iai, crede poco alle ipotesi di un massacro commesso dagli estremisti curdi - «abbastanza improbabile che abbiano voluto colpire la loro stessa gente in corteo per la pace» - e, invece, scorge la mano assassina del «Daesh» dietro un attacco suicida dal bilancio spaventoso e non ancora definitivo: almeno cento morti, oltre cinquecento feriti. Il più grave episodio terroristico mai avvenuto nel Paese della «Valle delle Fate». L'Iraq ha annunciato di avere colpito il convoglio di Abu Bakr al Baghdadi, proprio quando si moltiplicavano i sospetti sul «califfo dell'orrore» per le bombe di Ankara. Più vicino, adesso, il superamento delle divisioni tra le potenze nemiche dell'Isis? «Questo sarebbe dovuto già avvenire all'indomani dell'attentato di Suruc rivendicato dall'Isis (il 20 luglio, trentadue le vittime curde nella città del sud-est turco a pochi chilometri dal confine con la Siria, ndr) ma non è accaduto nulla. Sembrerebbe la cosa più logica che russi e americani, turchi e iraniani si ritrovino a combattere insieme contro la minaccia jihadista. Invece, no. Anche a Suruc, peraltro, entrò in azione un kamikaze. Un episodio troppo simile a quello di Ankara per non pensare alla stessa regia». Dopo Suruc, è riesplosa la guerra civile in Turchia. Adesso, il presidente Erdogan s'è rifiutato di incontrare i leader curdi per affrontare l'emergenza provocata dalla strage nella capitale. Sempre peggio, insomma? «A tre settimane dal voto, l'obiettivo principale di Erdogan è quello di evitare che il partito curdo Hdp superi la soglia del 10 per cento e ritorni in Parlamento. Ecco spiegata la sua mossa, a poche ore dai fatti di Ankara. Mi sembra eccessivo, però, ritenere che dietro la strage possa esservi lo Stato turco. Possibile, invece, che l'intelligence sapesse qualcosa ma non abbia fatto abbastanza per evitarlo». La Turchia è stata lungamente accusata di "ambiguità" nei rapporti con lo Stato Islamico. Il recente, drastico, allineamento sulle posizioni della Nato ha provocato la reazione dei "tagliagole"? «L'ambiguità c'era, ma era dovuta a vari fattori. Innanzitutto, la Turchia si sente particolarmente esposta alla minaccia dell'Isis. Non dimentichiamo che, quando cadde Mosul, i soldati del califfo occuparono proprio il consolato turco prendendo in ostaggio il personale. Funzionari e diplomatici furono rilasciati dopo mesi. Va, inoltre, considerato che la Turchia insieme con l'Arabia Saudita è il principale Paese-nemico del presidente Assad». Quindi? «Dire che i turchi sostengono lo Stato Islamico contro Assad è troppo, ma è pure vero che loro stanno dalla parte di altri gruppi jihadisti come Al-Nusra. Questi sono qaedisti, schierati in Siria nell'Esercito della Conquista contro l'Isis. Almeno a livello di miliziani, però, il confine tra le fazioni è davvero molto labile. Risulta così sempre più difficile, per gli Stati Uniti come per gli altri, proclamare che si sta con i ribelli moderati: in Siria, qualcuno sa dire chi sono i moderati?». Nel 2010, furono i terroristi curdi del Pkk a seminare morte sferrando un attacco-kamikaze nella piazza Taksim di Istanbul. Nessuna attinenza tra questo precedente e l'eccidio di sabato? «No, le attinenze ci sono. Non credo, però, che il Pkk abbia commesso un attentato per colpire i suoi. È un'ipotesi messa in circolo da quelli del partito di Erdogan, l'Akp, perchè adesso temono di potersi indebolire quando le elezioni del primo novembre sono ormai alle porte». Così scontato, poi, che il voto anticipato possa restituire stabilità al governo e al Paese? «La situazione di crescente tensione può spingere gli elettori massicciamente verso l'Akp, come soluzione in grado di riportare stabilità. L'insicurezza potrebbe portare verso questa direzione i turchi, mentre sappiamo che nel sud-est del Paese è costantemente in calo la partecipazione dei curdi al voto. Innanzitutto, perchè hanno paura. Questa, comunque, è solo un'ipotesi». Altro scenario post-elettorale? «Potrebbe ripetersi la situazione del 7 giugno, con l'Akp che resta primo partito ma non riesce a conquistare la maggioranza. Potrebbe, allora, essere la volta buona che si formi la grande coalizione tra Akp e il Chp, la principale forza di centrosinistra. Erdogan vuole evitare questa soluzione ma, se le elezioni non dovessero andare come spera, è possibile che nel suo stesso partito si moltiplichino le pressioni perchè vada all'accordo. Questo sarebbe uno scenario positivo, decisamente migliore rispetto ad altri mesi di instabilità politica». Comunque vada, pace più lontana con i separatisti? «Dietro le attuali posizioni, vedo molto opportunismo. È quindi immaginabile che, anche nel caso di Parlamento frammentato e governo di coalizione tra Akp e Chp, il Paese possa rimettersi in carreggiata e tutti si convincano della necessità di riavviare il processo di pace con il Pkk. Su alcuni punti come questo, anche l'Hdp (il partito curdo, ndr) potrebbe assicurare sostegno esterno al governo. Fino a sei mesi fa, d'altronde, un accordo di pace sembrava ormai imminente». Cioè? «Sei mesi fa, erano arrivati la dichiarazione di cessate il fuoco e l'annuncio di un processo di democratizzazione. V'era stato anche l'incontro nel Dolmabahce, lo storico palazzo di Istanbul, tra i leader di Pkk e Akp: i dettagli non sono mai stati rivelati al pubblico, ma si dice che erano davvero vicini a un'intesa. Poi, l'Hdp ha deciso di presentarsi alle elezioni. Il presidente Erdogan, temendo di perdere la maggioranza assoluta, ha così scelto di cambiare rotta riposizionando il suo partito su posizioni nazionalistiche. Ma l'Akp non era un partito nazionalista. Così come le cose in pochi mesi sono cambiate in un verso, adesso è possibile che mutino direzione in senso opposto». Lei ha pubblicato per la casa editrice britannica "Palgrave MacMillan" un saggio sui difficili rapporti tra Turchia e UE. Un errore non accogliere quel Paese nell'Unione Europea? «Sbagliato sbattergli la porta in faccia. La situazione, però, è adesso molto diversa rispetto a qualche anno fa, quando anch'io sostenevo che tutte le colpe erano dell'Europa mentre quella nazione andava avanti, sia pur con molte incertezze, nel cammino delle riforme democratiche. La Turchia, ora, ha preso un'altra tangente. Quella sbagliata». A cosa si riferisce? «Mi riferisco, ad esempio, alle violazioni di diritti umani, alla sospensione del processo di pace, e alla mancanza di riforme strutturali economiche. La situazione, comunque, può cambiare. E l'Europa può giocare un ruolo decisivo».

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