Giovedì 26 Dicembre 2024

Iacovino: «Nel nord Africa l’Isis dilaga: agire subito in Libia o si rischia il caos»

Il martirio di Sirte, la città devastata dalla guerra tra jihadisti, spinge i clan tribali e i due governi libici - Tobruk e Tripoli - a un'intesa. Entro la fine del mese, i colloqui di pace sotto egida Onu potrebbero chiudersi con la formazione di un esecutivo di unità nazionale. Ben ventiquattro, però, le fazioni al tavolo delle trattative. Nulla è scontato nel Paese del Caos: «La situazione resta molto magmatica, con milizie armate che continuano a rimanere in cerca di potere e rappresentanza», avverte Gabriele Iacovino. Il responsabile degli analisti del Centro Studi Internazionali-Cesi aggiunge: «I negoziati portati avanti da Bernardino Leon hanno fatto progressi, coinvolgendo le realtà locali e tribali libiche oltre a quelle partitiche rappresentate nel Parlamento di Bengasi (istituzione che legittima il regime di Tobruk, ndr). Il problema reale rimane la netta differenza tra la situazione negoziale e quella sul campo». Già in luglio, un accordo era fallito per il "no" di Tripoli. Il Consiglio islamista potrà mai essere un interlocutore affidabile? «Sicuramente, nel corso di questo mese e mezzo sono andati avanti i contatti tra i negoziatori Onu e le realtà di Tripoli. Il problema non è costituito dall'affidabilità delle realtà islamiste, quanto dalla loro inclusione nel processo di ricostruzione istituzionale. Finora sono rimaste fuori, anche per loro scelta. È pure vero che l'accordo raggiunto finora non contempla la partecipazione dei rappresentanti islamisti nel processo di transizione. Lo stesso governo di Bengasi, comunque, non si può ritenere rappresentante di una sola voce. Si pensi alle attività militari del generale Haftar che non rispondono per niente ai dettami dei rappresentanti politici della Cirenaica». Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna e Italia hanno sollecitato l'intesa con un documento congiunto. Appello o ultimatum? «È un segnale importante della volontà di trovare una soluzione comune ad un problema, quello libico, che più va avanti e più potrebbe comportare una minaccia alla sicurezza internazionale. In questo, il nostro Paese ha un ruolo di leadership e anche le parole del ministro Gentiloni stanno da una parte a sensibilizzare la comunità internazionale sulla situazione libica, non meno grave di quelle siriana e irachena che sono ben conosciute, ma dall'altra sottolinea l'esigenza di Roma nel gestire in prima persona una questione che mette a rischio la sicurezza del nostro Paese e potrebbe farlo sempre di più». Sirte è insanguinata dallo scontro che oppone Ansar al Sharia e Isis. L'odio tra jihadisti musulmani è la vera causa della "mappa dell'orrore" che i fondamentalisti stanno disegnando dall'Afghanistan alla Nigeria? «In Libia è in corso una guerra di potere tra realtà che si rifanno al jihadismo e che cercano un'affermazione nello scacchiere regionale. Indubbiamente, però, la crescita dello Stato islamico sta provocando uno smottamento nel mondo del fondamentalismo islamico: chi prima si rifaceva alle indicazioni di al-Qaeda, adesso tende seguire i dettami del Califfo al-Baghdadi». Il governo tunisino ha appena rivelato la scoperta di alcune cellule terroristiche a Biserta. I "tagliagole" sono a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste. E noi che facciamo? «Il fenomeno terroristico in Nord Africa ha radici che risalgono all'inizio degli Anni ’90. Non è tanto la presenza di gruppi terroristici a dover allarmare, ma è la crescita del supporto ad un gruppo come quello dello Stato Islamico che non solo fa dell’attacco all'Occidente uno dei suoi leit-motiv, ma soprattutto ha un'utilizzo dei media molto accattivante in grado di allargare il proprio bacino di utenza». Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha sollecitato una soluzione politica anche per il conflitto civile in Siria, definendolo «la più grande emergenza umanitaria odierna». Una pia illusione con lo Stato Islamico ormai alle porte di Damasco? «La situazione siriana è un rompicapo dalle mille incognite, sia regionali che internazionali. Ultimamente, ci sono state delle modifiche di alcuni equilibri: primo fra tutti, il dialogo tra Stati Uniti e Turchia su una possibile zona cuscinetto. In questo momento, però, siamo in una fase in cui non sono neanche delineate le possibili linee di una soluzione. Certo è che in qualsivoglia scenario futuro non ci sarà posto per la figura di Assad». Non bruciano solo Medio Oriente e Nord Africa. La strage di lunedì a Bangkok, in Thailandia, segnala un inquietante salto di qualità nell'attività dei separatisti islamici di etnia "malay"? «L'attentato a Bangkok è stato una drammatica manifestazione di instabilità politica, latente nel Paese ormai da più di un anno. L'attuale governo, figlio del colpo di Stato militare dello scorso maggio, si trova infatti a dover affrontare, spesso con il pugno di ferro, la forte opposizione di parti della popolazione: la classe rurale, rimasta fedele all'ex primo ministro, e la nuova generazione, desiderosa di maggiore democrazia. Costoro non si riconoscono in queste autorità e cercano, pertanto, di minarne la credibilità interna e internazionale».    

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