ROMA. «Mi hanno detto» che nell'interrogatorio l' autista degli italiani rapiti «ha raccontato di essere arrivato da ovest (dalla Tunisia, ndr). Dice di essersi accorto che dietro di lui c'era un' auto e che quand'erano a circa cinque chilometri da Mellitah quella macchina li ha costretti a fermarsi e a deviare verso sud».
A parlare, intervistato dal Corriere della Sera, è Mustafa Sanallah, presidente e ad della National Oil Corporation (Noc), l' azienda che gestisce l' impianto di Mellitah, dove lavorano i quattro tecnici della Bonatti sequestrati nei giorni scorsi.
Secondo Sanallah, i rapitori si sarebbero allontanati dalla strada principale «per poter catturare gli italiani» e ripartire poi verso ovest, la stessa direzione da cui erano arrivati.
«Sfortunatamente - continua l' ad della Noc - è stato fatto qualche errore, sono state violate le procedure di sicurezza»; «i quattro italiani viaggiavano in macchina soltanto con l'autista, senza nessuno che li proteggesse. E poi dopo il tramonto... erano le nove e mezza di sera, non si può fare».
«Le procedure - spiega il capo della compagnia petrolifera di Tripoli - dicono che avrebbero dovuto viaggiare via mare invece che dalla terraferma. Non è stato prudente, non era certo un viaggio sicuro...».
Intato ieri è stata un'altra giornata di attesa, di angoscia e di silenzio. Non cambia l'atteggiamento di dipendenti e dirigenti della Bonatti. «Troppo importante tutelare la loro
incolumità», ripetono ancora in coro i colleghi di Gino Pollicardo, Fausto Piano, Filippo Calcagno e Salvatore Failla. Inutile quindi attendere una dichiarazione ufficiale ma il tam
tam sui social network però non si è fermato con tante espressioni di solidarietà da parte di chi conosce i quattro tecnici rapiti ma anche di semplici cittadini.
La foto che immortala lo striscione con i nomi di Gino, Fausto, Filippo e Salvo, affisso all'esterno del compound di Wafa, ha sfiorato ormai le mille condivisioni e migliaia di 'mi piace.
C'è chi, ad esempio, lo ha commentato pubblicando un'altra foto delle strutture libiche dove operano i tecnici italiani con in primo piano recinzioni di filo spinato e torrette di guardia sottolineando: «No, non è un carcere ma la 'residenzà di onesti lavoratori che cercano di costruire un futuro dignitoso ai propri figli in un paese dove di dignitoso è rimasto poco. Liberate i nostri colleghi!».
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