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Nessrin Abdalla: «Io, donna combatto l’Isis da soldato in prima linea»

Da giornalista a comandante dell’esercito tutto al femminile dell’YPJ: «Per i miliziani è un disonore essere uccisi da noi»

Nessrin Abdalla ha il volto di una ragazza giovane e spensierata, gli occhi neri e profondi traspaiono una volontà di ferro. Dietro quel viso semplice si cela la fermezza di una donna dalle idee chiare e dai valori inscindibili. Abdalla, trentasei anni, è nata a Dayrik, nel cantone di Gizre a nord della Siria. Prima di arruolarsi nelle milizie dell’YPJ, era una giornalista che per anni ha raccontato la guerra vista dagli occhi di una cronista. Nel 2011 quando è scoppiata la guerra civile in Siria, l’Isis ha attaccato il Rojava distruggendo Kobane.
Oggi, il cantone della Sira è diventato la prima forma di autogoverno, una labile speranza di democrazia in un Paese martoriato dalla guerra. E Abdalla ha deciso di lasciare il suo lavoro per arruolarsi nell’esercito dell’YPJ, l’esercito composto da sole donne che combatte l’Isis con la stessa caparbietà degli uomini. «Stiamo guidano una rivoluzione che sta cambiando il nostro Paese – racconta -. Io vengo da una famiglia numerosa, composta da quattro fratelli e sei sorelle. La mia famiglia ha sempre cercato di difendere l’identità curda e mi hanno insegnato il valore e il rispetto per l’uguaglianza».

Qual è la situazione in Siria?
«Purtroppo, tutta la Siria è un grande conflitto aperto. Gruppi armati lottano tra loro solo per avere il controllo del territorio. A loro non interessa il bene del popolo, ma solo il potere. La nostra guerra contro l’Isis è un obbligo morale per salvaguardare la nostra identità culturale. Dobbiamo difenderci dalle barbarie di un gruppo armato che cerca di diffondere la paura. L’Isis minaccia i tre cantoni e ognuno cerca di difendersi in maniera differente, noi lo facciamo attraverso la democrazia».

In questo quadro geopolitico, si inserisce il cantone di Kobane.
«Solo in Rojava c’è un’idea di diversa, una democrazia che possa essere l’inizio di un nuovo percorso. Kobane è una forma di autogoverno, un’idea di democrazia che fa paura a chi la democrazia non la vuole. Siamo partiti dai settori della vita più importanti: dalla sanità, dall’istruzione e dall’agricoltura. Li controlliamo e gestiamo in autonomia grazie anche agli aiuti internazionali».

In questo passaggio un ruolo fondamentale l’hanno le donne. Qual è la loro condizione?
«Le donne sono state sempre vittime dell’uomo. Oggi qualcosa è cambiato. Le donne curde non sono più un passo indietro rispetto a prima, ma hanno acquisito consapevolezza. Non lottiamo solo con le armi, ma cerchiamo soprattutto di infondere una rivoluzione culturale».

Si spieghi meglio.
«La Siria vive una mentalità patriarcale. Siamo passati da un sistema matriarcale a uno patriarcale. Il risultato? Il patriarcato ha oppresso le donne facendo loro perdere la propria identità. Eppure, nella nostra natura è insita la libertà».

Le donne quindi stanno cambiando il corso degli eventi?
«Secondo la concezione maschile, le donne sono un soggetto debole, non possono creare nulla. E contro la volontà di un uomo nulla possono fare. Vedono nelle donne solo una condizione di debolezza e inferiorità. Poi, quando ci hanno visto combattere hanno capito che non potevano battersi con le armi convenzionali. Le loro sicurezze sono crollate. Hanno capito che davanti avevano avversari della loro altezza e questo li ha spiazzati».

In guerra però i civili pagano il prezzo più alto…
«Purtroppo il popolo paga sempre il prezzo di un conflitto di cui è solo vittima. Donne, bambini e anziani sono la parte più debole. A morire sono i civili, ma si distruggono soprattutto le famiglie. Le donne curde hanno perso i loro mariti e i loro figli, ma non hanno perso la speranza di un futuro diverso per il proprio Paese».

Lottate per rendere libero il vostro popolo, ma come è nata l’unità di difesa del YPJ?
«Il comando di unità di difesa delle donne è nato qualche anno fa. L’esempio è il movimento delle donne del PKK che hanno lottato sulle montagne per i principi di libertà e uguaglianza».

Com’è cambiata la psicologia della guerra all’Isis?
«Qualcosa è cambiato a livello interno, è crollata qualche convinzione nella fede dell’Isis. Le guerre si sono sempre combattute tra uomini, ma ora trovarsi contro le donne per loro è una situazione nuova. Essere uccisi da un altro uomo è considerato come martirio per la propria terra, essere ucciso da una donna è solo un disonore. I corpi dei combattenti uccisi da una donna non sono recuperati, anzi sono bruciati. Se al contrario, uno di loro uccide una nostra guerrigliera il corpo di una donna diventa un trofeo di guerra da mostrare al pubblico».

Si può sconfiggere l’Isis?
«Noi lottiamo per sconfiggere l’Isis. Per dare dignità a un popolo e una terra. Cerchiamo di portare la democrazia come segno distinguibile della nostra forza. Abbiamo la necessità dell’aiuto di tutti. Gli aiuti internazionali sono alla base della nostra sopravvivenza. Dobbiamo sconfiggere l’Isis per fermare la loro crudeltà. La lotta è un passaggio intermedio per arrivare a una nuova forma di democrazia. Oggi l’Isis è una minaccia per tutto il mondo, dunque la nostra è anche una lotta per salvare i valori dell'umanità».

E in Siria, cosa succederà?
«La Siria è al bivio. Rojava è la dimostrazione che un cambiamento è possibile. Oggi il nostro popolo ha bisogno di una difesa dagli attacchi esterni».

La delegazione curda in questi giorni è stata in Italia. Roma, Bologna e poi Palermo. Cosa avete chiesto al nostro Governo?
«Un aiuto tangibile, un appoggio politico, aiuti internazionali, un sostentamento contro l’Isis. Loro sono più organizzati di noi e per questo dobbiamo prepararci per sconfiggerli».

Ora torna in Siria con un bagaglio di esperienza in più. Cosa farà al suo ritorno?
«Io ho già un lavoro, farò quello che mi riesce meglio. Combattere. Torno in prima linea perché sono un comandante».

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