WASHINGTON. «Il nostro Paese è sulla strada sbagliata ed io mi candido per la presidenza degli Stati Uniti. L'America merita di meglio». Il repubblicano Jeb Bush scende in campo così: in un intervento al Miami Dade College annuncia la sua candidatura nella corsa per la Casa Bianca puntando sull'esperienza da 'governatore riformatorè della Florida e non semplicemente, dice, «di un altro membro del club». È in questo modo che il 'terzò Bush chiede il voto degli americani. Un conservatore sì, ma moderato, pone come priorità «prosperità e sicurezza», promette sicurezza in campo energetico raggiungibile in cinque anni e sottolinea che lui è «per la libera impresa». Si impegna poi per una crescita dell'economia del 4% e per la creazione di 19 milioni di posti di lavoro. Poi mette in campo il suo legame con l'elettorato latino, di Florida e oltre: non si espone sull'immigrazione ma si rivolge alla folla in spagnolo per chiedere aiuto per creare una vita migliore per i loro figli «per la causa della libertà e quella nobile degli Stati Uniti d'America». E se fin da subito nel suo intervento mette in fila attacchi all'attuale amministrazione, parlando a Miami il suo messaggio su Cuba non può che essere esplicito, distanziandosi da Barack Obama: «Novanta miglia a sud da qui si parla di una visita di stato da parte del nostro presidente. Ma non c'è bisogno di un turista adulato che vada all'Avana a sostegno di un fallimento per Cuba. C'è bisogno di un presidente americano che vada all'Avana per solidarietà con un popolo cubano libero e io sono pronto ad essere quel presidente». Jeb Bush si dice determinato nel suo messaggio di ottimismo («Perchè sono certo che possiamo rendere i prossimi decenni in America i migliori mai vissuti in questo mondo») e vuole essere se stesso prima di tutto: fin dal logo scelto per la campagna - «Jeb! 2016», senza alcun riferimento all'importante cognome. A costo di apparire poco creativo - gli è già stato rimproverato - vuole giocare sul sicuro ripescando simboli e riferimenti delle sue vittorie personali (come governatore in Florida), del suo personale percorso, rinunciando ad evocare il padre e il fratello presidenti e preferendo ricordare il suo personale curriculum nello Stato d'adozione. In platea a Miami per l'annuncio ufficiale c'è Barbara Bush, la 'capostipitè che in un primo momento riteneva ci fossero stati già abbastanza Bush alla Casa Bianca ma poi per Jeb ha cambiato idea. La chiama in causa subito, viene inquadrata brevemente. Tutto qui. Non ci sono il padre e il fratello George W., ma resta un'eredità pesante quella della 'dinastià e un'arma a doppio taglio: da una parte è il 'marchio di fabbricà che può far affluire donazioni e finanziamenti copiosi ma dall'altra evoca un poco americano passaggio di scettro. Eppure con oggi cambia il ritmo della campagna 2016 e proprio con la battaglia tra le 'dinastiè d'America entra davvero nel vivo. Irrompendo nel campo repubblicano particolarmente affollato, il 'terzò Bush parte già da predestinato frontrunner nella sfida con il 'pezzo da novantà dei democratici, Hillary Clinton, che a sua volta rivendica il suo 'primatò da candidata (sebbene si tratti del secondo tentativo) e afferma: «Non corro per il terzo mandato di Obama o per il terzo mandato di mio marito. Corro per il mio primo mandato». Ci sarà da vedere poi a questo punto quanto spazio la discesa in campo di Jeb Bush sotrarrà ai numerosi altri candidati repubblicani (11 ad oggi), a Marco Rubio in particolare che potrebbe rivelarsi la vera sfida e tra l'altro su un terreno comune, la Florida. Il giovane senatore oggi ha optato per il fair play, dando il benvenuto al 'rivalè che fu il suo mentore con un insolito endorsement: «è un amico». Ma la sfida è aperta.