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Ciro Sbailò: «Lo Stato islamico è sempre più forte, grazie a una rete di servizi segreti»

«Lo Stato islamico è sempre più forte, anche se ogni tanto subisce qualche colpo di carattere militare. Un recente dossier pubblicato dalla stampa tedesca, inoltre, dimostra come l'Isis non solo sia una struttura altamente organizzata, ma abbia messo a punto un programma politico di medio e lungo termine supportato, tra le altre cose, anche da un efficace sistema di servizi segreti. Inutile girarci intorno: lo Stato islamico è molto bene armato, si sta consolidando e adesso minaccia sia l'Occidente, che i paesi musulmani del Mediterraneo». A parlare è Ciro Sbailò, docente di diritto comparato all'università Kore di Enna, dove dirige anche il centro studi «Skai» sul costituzionalismo arabo e islamico. Recentemente ha pubblicato con la casa editrice Cedam il volume «Diritto pubblico dell'Islam mediterraneo. Linee evolutive degli ordinamenti nordafricani contemporanei: Marocco, Tunisia, Libia, Egitto».

 

Professore, l'attenzione dell'Italia e dell'Europa si sta concentrando quasi esclusivamente sul fenomeno dei flussi migratori, degli sbarchi. È solo questo?

«All'origine delle recenti tragedie del mare c'è il caos che regna nell'area nordafricana. Ma per affrontare il problema occorre una prospettiva geopolitica e culturale di medio e lungo termine. L'Europa ha stanziato risorse economiche per affrontare l'emergenza, ma non ha sviluppato una politica estera, anche perché manca una strategia comune di difesa. La soluzione che sta adottando l'Europa allevia soltanto il dolore, ma non cura la ferita. Che rischia di riaprirsi a breve».

 

Ieri in un blitz contro la rete di Al Qaeda, la polizia ha arrestato venti persone in sette province italiane. Si parla del pericolo che i tagliagole dell'Isis arrivi sui barconi dei migranti, ma sono già dentro casa nostra.

«Il problema vero non è che i terroristi arrivano sulle barche insieme con i migranti: escludo che sia questo il loro mezzo principale d'ingresso in Occidente. Loro puntano soprattutto a sollecitare l'insorgenza islamica dove esistono già, in Occidente, dei nuclei di potenziali aderenti all'Isis».

 

È stato necessario un altro dramma del mare con ottocento morti perché l'Europa cominciasse ad accorgersi che il Mediterraneo è una frontiera europea. Adesso, però, l'Unione europea si trova davanti a un bivio: intervento militare o accoglienza. O c'è un'altra soluzione?

«Se si andasse con l'elmetto in Libia sarebbe molto peggio del Vietnam. La presenza di truppe occidentali nell'area porterebbe a livelli estremi le tensioni già presenti nel mondo islamico. Sarebbe facile per l'Isis procedere ad arruolamenti di massa contro l'invasione. Non scherziamo col fuoco. Non facciamo gli stessi errori compiuti in Iraq. Dove, appunto, è nato lo Stato islamico».

 

Blocchi navali per fermare l'esodo di massa, droni per distruggere i barconi dei trafficanti di uomini. Quale potrebbe essere la scossa giusta?

«Inutile parlare di blocchi navali: la nostra Costituzione ci impone il soccorso ai richiedenti asilo. E la soluzione dei droni mi sembra poco praticabile, perché presuppone un'azione d'intelligence accuratissima e il minimo errore ci potrebbe costare caro. Non dimentichiamo che i trafficanti possono utilizzare i migranti come scudi umani, impedendo all'origine l'azione dei droni. L'Europa, come soggetto unitario, dovrebbe, invece, fare sentire tutto il suo peso politico ed economico sulla Libia per costringere i governi di Tripoli e Tobruk a trovare la via di una collaborazione. Ma per fare una politica di questo tipo, ci vuole il coordinamento di tutto: forze diplomatiche, risorse economiche e finanziarie, eserciti, servizi segreti. Siamo ancora in una fase embrionale. Le recenti tragedie sono una scossa, un impulso all'accelerazione di questo processo».

 

Dopo la notizia della morte del palermitano Giovanni Lo Porto, ucciso a gennaio da un drone americano durante un raid in Pakistan, sono ancora due gli italiani di cui non si hanno notizie: il gesuita romano Paolo Dall'Oglio, scomparso in Siria nel luglio del 2013, e il medico catanese Ignazio Scaravilli, di cui dal 6 gennaio si sono perse le tracce in Libia, dove operava in un ospedale di Tripoli.

«Il Mediterraneo ormai è un territorio in fiamme. Casi come quello che ha colpito il cooperante palermitano purtroppo rischiano di essere sempre di più all'ordine del giorno. Prepariamoci ad anni di drammatica incertezza».

 

Per contrastare l'Isis, Boko Haram, Al Qaeda, Al Shabab e altre organizzazioni terroristiche è stato proposto che l'Unione europea apra speciali uffici consolari in alcuni Stati arabi per esaminare sul posto le domande d'asilo e concedere visti umanitari. Sarebbe la soluzione al problema?

«In generale è un'idea eccellente, ma presuppone una condizione fondamentale: avere interlocutori politici sui territori. In alcuni paesi si potrebbe tentare di averli. Ma in Libia, per esempio, non ne abbiamo. E il vero buco nero, al momento, è lì».

 

A che punto è l'avanzata del Califfato nero?

«È in un processo in espansione e consolidamento, ma non tanto sul piano territoriale. Esiste, certo, un nucleo territoriale forte nella zona della Grande Siria. In più ci sono delle "province", la più importante delle quali è collocata al centro della Libia. Ma il problema è che l'Isis sta diventando un modello di riferimento per l'insorgenza islamica globale. È bene che sia militarmente sconfitto, da truppe islamiche, ovviamente. Ma il problema resta il fascino che esercita su una parte dell'Islam globale».

 

Insomma, si prepara una nuova guerra di civiltà?

«No. Siamo in una guerra "dentro" la civiltà. È una guerra interna all'Islam. L'Europa può essere determinante nel far vincere quello che, impropriamente, si chiama Islam "moderato" e che io, invece, preferisco definire Islam "popolare". Comprende un'area abbastanza vasta, che va dai fratelli musulmani al riformismo islamico attuato dal Re del Marocco. L'Europa deve farsi sentire con i suoi interlocutori nel Nord Africa perché si trovino soluzioni concordate nell'area e si formi una coalizione per combattere il Califfato nero. Bruxelles ha i mezzi per farsi sentire: siamo interlocutori fondamentali su molti fronti, dall'economia alla formazione. Ma per adoperare questi mezzi ci vuole una politica comune».

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