Lunedì 23 Dicembre 2024

Ancora la peste? «Colpisce i poveri, a nessuno interessa curare e prevenire»

Terribile evocazione la peste castigo di Dio, eppure si cura con un qualsiasi antibiotico ma proprio per questo non attrae l’industria farmaceutica: non si muovono capitali intorno alla ricerca e così la peste vive di fiammate che scoppiano nel mondo povero e poi si insabbiano per decenni nelle campagne, nelle foreste. Il batterio resta nel corpo di un topo, di un cammello, di un gerbillo gigante, e dopo decenni altre fiammate. Lottare contro la peste? Malgrado il numero di morti, non ne vale la pena. Disapprova ma lo ammette anche il professor Alfredo Salerno, una lunga esperienza universitaria nel campo della Patologia generale, presidente dell’Accademia delle scienze mediche del Policlinico di Palermo. Autore di pubblicazioni scientifiche recentemente anche su Nature, in collaborazione con esperti inglesi: «A Londra, costruendo la stazione del metro, è stato trovato il vecchio cimitero dei morti di peste e gli inglesi con l’Accademia del Policlinico di Palermo hanno ripercorso tutta la storia della peste in Europa». Per la peste nessuna ricerca eppure, professor Salerno, le epidemie sono continue, 2013 Perù, 2014 Madagascar... «È una malattia che colpisce i poveri, come la malaria, una patologia negletta che colpisce gli ultimi, sappiamo che ci sono 4-5000 morti all’anno ma è certamente - come dice l’Organizzazione mondiale della sanità - sottorappresentata rispetto alla realtà: una malattia dei poveri che non mobilita risorse». Nemmeno per la prevenzione? «Non si fanno serie indagini, specie nei paesi in cui esistono ancora le pulci, che sono il vettore della malattia. Nel nord Africa le epidemie sono frequenti ed è grave la situazione del Madagascar. Nel 2006 l’Oms ha organizzato un congresso sulla peste, si è ribadito che interessa i paesi poveri e che sarebbe necessario l’impegno di un sistema sanitario che in molti paesi a rischio peste invece non c’è». La prima peste della storia? «Nel Mar Nero a Jaffa, 1300, ma partiamo da molto più lontano da Tucidide che offre tracce documentali dal 430 a. C. A Jaffa il primo esempio di una vera e propria guerra batteriologica: gli assedianti tartari, per stanare i genovesi che avevano conquistato quelle colonie, catapultavano i cadaveri dei morti di peste all’interno della città. E questa è la peste che è arrivata con le navi in Italia, la peste descritta dal Boccaccio nel Decamerone, nel periodo fra il 1345 e il 1348. Arriva per prima in Sicilia e poi con le navi percorre tutta l’Europa fino a Londra». E da allora non si è mai fermata. «Tutti gli episodi epidemici sono probabilmente riaccensioni di quella peste, la stessa peste del tempo di San Carlo Borromeo…». Come si spiega che le ondate si azzerano e si riaccendono dopo per esempio mezzo secolo? «Perché i batteri rimanevano allora probabilmente nelle campagne». E chi moriva nelle campagne? «Erano casi isolati, piccolissime comunità con il vuoto intorno, dove non si registravano i clamorosi picchi epidemici delle città». La prima peste in Sicilia? «Nel 1575 a Palermo la prima forma estesa e virulenta che ha colpito migliaia di persone, Gian Filippo Ingrassia, noto medico siciliano, ha scritto uno splendido volume sulla peste di Palermo e lo storico Salomone Marino scrive che quella era un’opera di estrema importanza da ben pochi menzionata e da nessuno forse studiata. Ed è vero, a dimostrazione del disinteresse scientifico intorno alla peste: il testo dell’Ingrassia è stato studiato da forse da nessuno e letto da pochi». Una malattia che non è mai stata presa sul serio, anche se fa grande paura? «Mai affrontata con le dovute misure e con i mezzi. A Palermo la grande ondata del 1575 ha visto come protagonista il medico Ingrassia, che ha usato tre rimedi: oro, forca e fuoco. L’oro per potenziare i sistemi di prevenzione e di isolamento, la forca per punire coloro che non ubbidivano alle iniziative di contenimento della malattia, e il fuoco per bruciare tutte le abitazioni e le masserizie che potevano essere fonte di contagio. Si aprirono degli ospedali, il più grande alla Cuba, poi si usò anche l’ospedale di S. Spirito, di S. Anna». In quanto tempo Palermo si libera di quella peste? «Il centro cittadino in due tre anni, ma probabilmente la peste rimane nelle campagne, e lì le pulci si trasferiscono dal topo all’uomo. Il batterio è un ospite del topo, si chiama bacillo della peste ed è ospitato anche in altri animali, il cammello, il gerbillo, sono tutti ospiti del bacillo e lo trasmettono all’uomo attraverso la puntura delle pulci che dal loro corpo saltano sull’uomo». Passano 50 anni e la peste ritorna. «Nel 1624 ed è la peste di S. Rosalia, la santa patrona che viene invocata contro la malattia. Oggi gli episodi del Madagascar rappresentano una delle consuete riaccensioni della malattia, topi e pulci sono stabili e gli episodi si riaccendono. Sono stati parecchi i morti per peste a Palermo, non ci sono dati epidemiologici e la scomparsa della malattia e l’azzeramento del numero dei morti in città è stato attribuito al miracolo di santa Rosalia. Ma cinque anni dopo, nel 1630 c’è stato un ritorno, una epidemia proveniente dal nord Italia, ma in forma epidemica non è mai tornata». E oggi? «Focolai di peste esistono dappertutto, e alcuni sono nel nord Africa, a un’ora di aereo dalla Sicilia. Nel mondo i casi isolati sono numerosi, ma quando avvengono nelle campagne chi li denuncia? Ed è queta la situazione tipo del nord Africa, una epidemia latente che circola e deflagra vistosamente in alcune zone, con allarmi internazionali, mentre il resto dei casi striscianti non assume il rilievo di epidemia degna di attenzione ai fini dell’Oms». Si puo ipotizzare, visto l’avanzamento igienico, che la peste non si vedrà più in Sicilia? «Le nostre condizioni igieniche sono disastrose ma non tali da permettere la ripresentazione della peste, fra l’altro c’è un sistema sanitario che controlla bene e un eventuale caso sarebbe immediatamente intercettato, isolato. Ma è pur vero che una caduta dell’attenzione dei sistemi potrebbe anche essere causa di riaccensione dell’epidemia, come è avvenuto in nord Africa, e questo dipende dalla capacità di monitorare la situazione sanitaria: la nostra situazione sanitaria è scadente ma non tale da permettere la ricomparsa della peste».

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