Lunedì 23 Dicembre 2024

Settanta anni fa il primo attacco kamikaze della storia

TOKYO. Il 21 ottobre del 1944, nel pieno della battaglia di Leyte, nelle Filippine, comparve il primo attacco "kamikaze" degli aviatori giapponesi che sacrificarono la loro vita per "l'Imperatore e l'Impero". Era, nel significato letterale, il "vento divino" che avrebbe dovuto annientare i nemici come accadde con il tifone che nel 1281 spazzò via la flotta d'invasione mongola pronta a colpire da ovest il Giappone, dando il via al mito della inviolabilità del "sacro suolo" nipponico. Appena quattro giorni dopo, il 25 ottobre, nel golfo di Leyte ci fu la prima missione senza ritorno della 'Kamikaze special attack force', l'unità specializzata che fu emulata numerose volte nell'ultimo anno della Seconda guerra mondiale. E che colpì l'immaginario collettivo globale, tanto da fare della parola kamikaze, con un significato ampliato, il sinonimo dell'uomo che sceglie la morte per odio o per guerra come continua ad accadere, ad esempio, nello scacchiere mediorientale. I raid contro le navi americane e alleate furono una mossa disperata con le sorti della battaglia del controllo del Pacifico indirizzate in modo inesorabile a favore degli Usa. Il fallimento degli scontri navali e aerei convenzionali per fermare l'offensiva e l'avanzata statunitense non lasciavano spazio che al sacrificio estremo. Il capitano Motoharu Okamura, un asso dei cieli e pilota di aerei sperimentali fin dagli anni '30, ne era convinto. "Credo fermamente che l'unico modo per portare la guerra a nostro favore sia ricorrere ad attacchi suicidi con i nostri aerei. Ci saranno più che sufficienti volontari per sfruttare l'occasione di salvare il nostro Paese". La prima forza kamikaze era composta da 24 piloti volontari della 201/mo gruppo aereo della Marina imperiale. Gli obiettivi erano le portaerei di scorta statunitensi: una, la San Lo, fu colpita da un caccia A6M Zero e affondata in meno di un'ora, uccidendo 100 americani. Più di 5.000 piloti suicidi morirono nel golfo distruggendo 34 navi. Un trend destinato a ripetersi e a coinvolgere i piloti-ragazzini, appena diciottenni. Un sacrificio estremo che non impedì la conquista alleata delle Filippine, di Iwo Jima e Okinawa, fino alla capitale Tokyo. Per le loro incursioni, i kamikaze impiegarono velivoli convenzionali e aerei imbottiti di esplosivo o benzina o appositamente progettati e chiamati Ohka ("fiori di ciliegio") dai giapponesi e Baka ("inganno") dagli americani, visto che erano dei velivoli-razzo sganciati dal bombardiere. La tradizione della morte invece della sconfitta, della cattura e della vergogna era profondamente percepita e radicata nella cultura militare giapponese. Fu alla base dei principi cardine della vita del samurai e del suo codice, il Bushido: lealtà e onore fino alla morte.

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