PALERMO. Cresce il potere d'acquisto delle famiglie italiane, per la prima volta dal 2007. Lo scrive l’Istat nell’indagine sul reddito e risparmio delle famiglie. Nel 2015, spiega l'Istituto di statistica, il reddito disponibile delle famiglie è aumentato dello 0,9%. Un dato che conferma un po’ del cauto ottimismo espresso a Cernobbio dalla Confcommercio.
Un dato, però, cui si contrappone l’andamento non proprio confortante della pressione fiscale cresciuta, con l’ultima revisione, dello 0,2%. Un quadro in cui speranze e preoccupazioni sembrano in qualche maniera bilanciarsi. Ne parliamo con Carlo Sangalli, presidente di Confcommercio che, proprio a questi temi ha dedicato il recente Forum di Cernobbio.
Allora, presidente, finalmente si vede uno spiraglio sui consumi?
«È la conferma che il motore dell’atteso ciclo di ripresa sarà la domanda interna. Tanto più importante perché il contributo della domanda estera netta sarà pressochè nullo o di appena qualche decimo».
Quali elementi, a suo parere, giocano a favore di questa ripresa dei consumi?
«Ci sono alcune misure significative contenute nella legge di stabilità 2016 a favore di famiglie e imprese. Penso per esempio al sostegno alle famiglie povere o alle misure relative alla detassazione e alla decontribuzione dei nuovi assunti. Complessivamente il nostro ufficio studi prevede per quest’anno una crescita dei consumi (+1,4% quest’anno e +1,7% il prossimo) e una dinamica sufficientemente sostenuta dagli investimenti fissi lordi (+3% e 3,7%)».
Un po’ a sorpresa, però, per il 2015 l’Istat ha rivisto al rialzo di 0,2 punti percentuali la pressione fiscale. Quale è il suo commento al riguardo?
«Tasse così alte sono incompatibili con una crescita robusta e diffusa. Inoltre, ci sono sperequazioni fiscali territoriali che penalizzano fortemente le nostre imprese. Sperequazioni e tasse alte che queste imprese non vogliono e non possono più sopportare».
A Cernobbio avete disegnato un futuro abbastanza confortante per l’economia italiana. Con i dati pubblicati adesso cambia qualcosa?
«Un anno fa parlavamo di segnali di ripresa che dovevano concretizzarsi. Solo in parte è accaduto e a Cernobbio lo abbiamo ripetuto. Infatti, in Italia, occupazione, consumi, produzione, fiducia, credito, nonostante i dati pubblicati ieri dall’Istat, seguono ancora un andamento altalenante non riuscendo ad imprimere alla ripresa un cambio di passo. Lo scenario internazionale è altrettanto articolato e incerto. La crisi dei migranti in Europa, il rallentamento dell’economia cinese, le recessioni in alcuni paesi emergenti e il pericolo Brexit, con il connesso pernicioso indebolimento dell’Unione europea e, soprattutto, dell’ideale di Europa unita, mettono in discussione la crescita. Noi comunque vogliamo mantenere una quota di ottimismo e continuiamo a prevedere un aumento del Pil dell’1,6% per l’anno in corso, ma i segnali di ripresa sui consumi da soli non bastano. Ecco perché il governo deve scommettere sulla ripresa».
Questa è soprattutto una bella speranza. In concreto che cosa serve?
«Non ci sono ricette miracolose. La via è unica e obbligata: riduzione della spesa pubblica improduttiva per ridurre, di conseguenza, le aliquote Irpef. Solo così si tornerà a stimolare in maniera concreta la domanda interna e potremo immaginare famiglie che tornano a spendere e imprese che tornano ad investire».
Voi avete sempre messo in luce le difficoltà legate alla composizione fin troppo articolata della realtà italiana. Quella che scattate ora è una fotografia uniforme su tutto il territorio?
«No. Esistono divari e ritardi regionali che stanno acuendo i problemi strutturali del nostro Paese. E ci sono aree che non crescono perché scontano da troppi anni due deficit, legalità e infrastrutture, e due eccessi, burocrazia e carico fiscale. Questi “difetti” - chiamiamoli così - sono amplificati nel Mezzogiorno che continua a perdere peso in termini di abitanti, lavoratori e reddito e registra un ridimensionamento dei fattori di produzione. Non è dunque casuale che al Sud il problema della burocrazia “pesi” il doppio rispetto alle regioni del Nord-ovest così come, in tema di legalità, i reati sulle imprese siano quasi il doppio rispetto al Nord-est. Questo non vuol dire, sia chiaro, che solo il Mezzogiorno va male. Il problema è dell’intero sistema-Paese che sconta una mancanza di competitività e una perdita di produttività complessiva. Gli eccessi e i deficit strutturali del nostro Paese costano a ciascun cittadino 3.800 euro l’anno, come abbiamo denunciato poco tempo fa. È la tipica condizione di un Paese “frenato”. Rimuovere questi ostacoli – e sappiamo bene che è una sfida lunga e impegnativa - è la sola strada che valga la pena di percorrere».
Qual è la vostra ricetta per rilanciare l’economia meridionale?
«Due sono gli ambiti di intervento prioritari: potenziare le infrastrutture e spendere bene le risorse dei fondi strutturali europei, concentrando gli sforzi su quella vocazione naturale all’export del Sud che si chiama turismo e che in quest’area non è adeguatamente valorizzata. Questo settore è, infatti, una potentissima leva in grado di generare nuova occupazione e maggiore ricchezza, contribuendo così, allo sviluppo e alla crescita non solo del Mezzogiorno ma dell’intero Paese. Perché senza turismo non c'è crescita per il Sud. E, senza Sud, non c'è crescita per l'Italia».
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