PALERMO. Il confronto tra l’ultimo quadrimestre del 2012 e l’ultimo del 2015 - in sostanza prima e dopo la cura - proietta un’immagine del mercato del lavoro davvero angosciante. I disoccupati continuano ad aumentare in Sicilia. Qualcosa di simile accade, in realtà, anche nel resto del Paese; ma le differenze sono sostanziali. In Sicilia i disoccupati sono aumentati, nel triennio, dell’8%, mentre nella media nazionale la crescita si è fermata al 2%. Vista attraverso l’altra faccia della medaglia, quella dell’occupazione, la situazione è notevolmente peggiore. Mentre il Paese, sempre nel triennio, ha creato 39 mila nuovi occupati, la Sicilia ha perso invece cinque mila posti di lavoro. Con circa 1,3 milioni di occupati in totale, l’Isola si attesta così a un tasso del 40%; la media nazionale è del 55%. Allo stato attuale sembra un divario incolmabile. Come stupirsi, poi, se negli ultimi due anni (2013-2014), circa 225 mila siciliani hanno lasciato l’Isola per altre regioni o per l’estero? Inutile aggiungere che non si tratta di pensionati andati a svernare in un’isola caraibica, ma piuttosto della nostra «meglio gioventù». Il tanto sbandierato turismo, nonostante l’accresciuta pericolosità di altre tradizionali mete mediterranee, resta al palo. Anche con 200 mila arrivi e 500 mila presenze in più, la Sicilia è il fanalino di coda della formidabile macchina turistica italiana e s’intesta meno del 4% dei relativi flussi. Tuttavia è la distribuzione dei «pochi» con un lavoro, che trasmette la sensazione peggiore. I posti lavoro nell’agricoltura siciliana, nell’industria manifatturiera e nell’edilizia, tutti considerati, si equivalgono agli occupati nel commercio. Se poi aggiungiamo gli altri occupati nei servizi e nella pubblica amministrazione, arriviamo a un valore così elevato da fare pensare a una società che ha superato lo stadio dell’industrializazione e si dirige verso quello che gli economisti chiamano un «quaternario avanzato»; peccato che questo passaggio poggi su basi fragilissime. In Sicilia non abbiamo conosciuto la fase di sviluppo industriale e le tante imprese siciliane che operano nei servizi soffrono di dimensioni medie modeste e di una mortalità precoce e continua. Con un po’ d’ironia ci potremmo definire «diversamente occupati». È il turn over continuo di negozi e pubblici esercizi - chiudo oggi con un’insegna e riaprirò domani con un’altra - che mantiene in piedi questo castello di carta. Gli esercizi commerciali siciliani chiusi nel 2015 sono stati 9.322, quelli di nuova apertura 5.305. In una sintetica carrellata sui «numeri» della Sicilia non potevano mancare quelli sulla produzione e lo smaltimento dei rifiuti. Quegli stessi scarti che in tutte le economie occidentali, ivi incluse le regioni italiane del centro-nord, sono materie prime «secondarie», in Sicilia sono dramma ambientale e costituiscono serio rischio per la salute. In tanti sono pronti anche alla protesta di piazza sui termovalorizzatori; mai uno, però, che mette in discussione la bomba ecologica delle nostre discariche. I dati non sono aggiornati, ma certo non sono migliorati negli ultimi anni. La raccolta differenziata è la pre condizione per il riciclo ed il riuso dei materiali scartati; in Sicilia non è così. Nella media italiana si differenzia il 34% dei rifiuti mentre in Sicilia ci collochiamo sotto il 10%. Le prospettive a breve schiudono uno scenario se possibile ancora più grave. Secondo un report elaborato in questi giorni dalla stessa Regione, la Sicilia produce ogni giorno, per 365 giorni l’anno, 6.200 tonnellate di rifiuti, mentre ha spazio in discarica per appena 4.500 tonnellate al giorno. L’estate incalza e con essa il rischio sempre più concreto della calamità pubblica. E la Regione? Sei anni dopo l’ultima legge di «riforma» del comparto, chiede a Roma l’ennesimo riconoscimento dello stato di emergenza. Altri commissari, altre toppe, forse per andare verso una prossima richiesta dello stato di emergenza. Qualche giorno fa la Confcommercio ha presentato uno studio sui possibili ritorni, in termini di lavoro e di ricchezza, agendo su quattro precise fragilità delle regioni meridionali e della Sicilia. Si chiamano burocrazia, legalità, trasporto e istruzione. Agire su queste leve porterebbe a una crescita rilevante; ma come dimenticare che, ad esempio nell’ambito dell’istruzione, la Sicilia resta la prima regione italiana per abbandono scolastico prematuro e la penultima per numero di laureati. Occupati come siamo a tappare quotidianamente le falle del precariato, dove trovare il tempo per questi problemi?