PALERMO. Cultura, educazione finanziaria, momenti di incontro fra istituzioni, banche e imprese. Sono queste le iniziative che animano il tour dell’Abi (la Confindustria delle banche) che quest’anno fa tappa a Catania con diversi eventi da oggi a sabato. L’iniziativa, inaugurata nell’autunno 2011 è giunta alla tredicesima edizione. Torna in Sicilia dopo la tappa di Messina del gennaio 2013. Come nelle precedenti occasioni, la città sarà teatro di numerosi eventi, legati da un comune filo rosso: testimoniare e condividere il patrimonio di esperienze, professionalità ed energie che le banche mettono quotidianamente in campo, dialogando con il tessuto economico locale oppure offrendo servizi alla collettività. L’appuntamento di quest’anno cade in un momento molto delicato per il sistema bancario italiano messo sotto pressione dalla speculazione finanziaria. Quali le ragioni e quali gli obiettivi di questo attacco? E soprattutto i risparmiatori devono preoccuparsi per il loro patrimonio? Ne parliamo con Antonio Patuelli, presidente dell’Abi che sarà a Catania sabato per la giornata conclusiva dell’evento. Le banche italiane sono nuovamente nell’occhio del ciclone come nel 2011. Allora perché avevano troppi titoli di Stato in portafoglio e l’Italia rischiava la fine della Grecia. Adesso perché il volume dei crediti inesigibili ha raggiunto il livello record di 201 miliardi. Che cosa succede? E soprattutto quanto sono solide le nostre banche? «Il sistema bancario italiano è solido e non siamo nella situazione dell’autunno 2011 come sento ripetere in questi giorni con molta pigrizia. L’economia italiana non è in caduta come cinque anni fa ma è in ripresa. Lo spread fra Btp e Bund tedeschi resta a cento punti e non oltre i 500 come era allora. Aggiungo che il differenziale fra i nostri titoli di Stato e quelli francesi è di circa 70 punti base. Uno squilibrio limitato. Inoltre le prospettive di ripresa per il 2016 sono robuste». Ma allora se tutto va così bene perché sui mercati l’Italia torna a ballare? «Ci sono problemi internazionali focalizzati soprattutto sul Medio Oriente. In quell’area, che si conferma la più turbolenta del mondo, ci sono incognite politiche legate al terrorismo ma anche agitazioni di natura economica. Noto, però, che i mercati sono diventati strabici: anziché concentrarsi sulle opportunità che, anche per le nostre aziende si aprono con le esportazioni verso l’Iran si preoccupano per il calo del petrolio. Anche qui con una visione miope tenuto conto che per l’economia italiana, fortemente dipendente dalle importazioni di greggio, il calo dei prezzi dell’energia è una buona notizia». Ma non c’è solo l’Iran a turbare il quadro internazionale. «Certo è molto delicata e complessa anche la situazione in Libia. Ci sono preoccupazioni per la Cina, e qualche difficoltà si vede anche nella Ue. In particolare in Francia dove il Presidente Hollande fatica a far uscire il Paese dalla stagnazione. Nonostante questo insisto a dire che la situazione dell’Italia è in netto miglioramento». Forse i risparmiatori che sono rimasti ingabbiati nel crack di Popolare Etruria, Banca Marche, Cariferrara e Carichieti non sono così fiduciosi sul futuro. Ci sono altri pericoli all’orizzonte? «Mi sentirei di escluderlo. Serve comunque costruire un futuro che incomincia ad esserci. Esistono nuovi sistemi di vigilanza integrati fra Bce e Banca d’Italia che prevengono le crisi sulla base di parametri ancor più stingenti del passato. Certo lo choc è stato forte e la risoluzione della crisi delle quattro banche è stata caricata di sproporzionati segnali negativi. Senza tener conto, però, che ben maggiori problemi hanno avuto le banche di altri Paesi salvate con il denaro dei contribuenti quando era ancora possibile farlo». Una via d’uscita? «Il problema è che l’Italia è uno dei Paesi europei con il più alto grado di liberalizzazione dei mercati. Certamente un fatto molto positivo che, tuttavia diventa un elemento di debolezza in mancanza di un testo unico bancario e senza un testo unico della finanza». È solo un problema di regole? «Credo che sia giunto il momento di fare una riflessione innovativa sulle rispettive del capitalismo in Italia. Oggi soffriamo di debolezze interne ed esterne che in questo momento dono diventati ancora più evidenti a causa dei i disinvestimenti che stanno effettuando i fondi sovrani dei paesi produttori di petrolio a causa del calo del prezzo del greggio». Che cosa vuol dire in concreto? «Il problema è rappresentato dalla maggior facilità della speculazione di affondare il coltello perché il capitalismno nazionale è debole. Negli ultimi vent’anni abbiamo fatto più privatizzazioni di altri. Però i fondi pensione non sono decollati. Quindi siamo carenti di investitori istituzionali. La crisi bancaria degli anni Trenta fu affrontata con salvataggi di Stato. Quella degli ultimi otto anni con risorse private che sono state bruciate. Il punto chiave è la debolezza complessiva del capitalismo italiano. Le libertà dei mercati non viaggiano da sole ma accompagnate dalle sensibilità verso le varie forme di risparmio capitalista. Quindi occorre domandarsi che cosa fare ancora di più per mobilitare il risparmio degli italiani. A cominciare dalle condizioni fiscali perchè non si può stare mercato unico con disparità fiscali. È difficile anche sostituire le fondazioni di origini bancarie come elementi di stabilizzazione». Usciremo dalla crisi? «Assolutamente sì. In questi mesi si è chiuso un ciclo storico aperto nel ‘73 in maniera esplosiva con il primo choc petrolifero. Oggi i paesi produttori non sono più in grado fissare prezzi né quantità. Sono in annuncio declino. Una fase storica che è cambiata e bisogna coglierne potenzialità e limiti. I limiti si vedono con il ritiro degli investimenti degli sceicchi. Le potenzialità sono di natura industriale perché le produzioni nazionali tornano molto competitive. Per l’Italia è occasione da cogliere». Come sta affrontando il Sud questa svolta? «La geopolitica tradizionale in forte mutamento e l’Italia tornata area confine. Non più sulla direttrice Est-Ovest ma Nord-Sud ed Ovest- Est. In tutte le combinazioni la Sicilia. È il ponte per tutti i collegamenti: quelli fra l’Europa e il Nord-Africa ci sono da sempre. Ma ora anche dal cuore occidentale dell’Europa verso il Medio Oriente. Questa centralità con le primavere arabe era sembrata svanire. La geopolitica ha un suo dolore ma non bisogna farsi scappare l’occasione».