Lunedì 23 Dicembre 2024

Ricolfi: “Meno tasse alle imprese che investono al Sud”

Meno precariato, più contratti a tempo indeterminato. I dati Inps segnalano una svolta nella qualità del lavoro che caratterizza la Penisola. Le decontribuzioni studiate per chi stabilizza, sembrano premiare le strategie messe in campo dal Jobs Act. Abbattere il muro dei rapporti a termine non sembra più un’utopia. «Ma attenzione alle bolle transitorie – avverte l’editorialista del Sole24Ore Luca Ricolfi – gli effetti benefici della riforma cesseranno nel 2016». «Per una vera crescita – osserva il sociologo che insegna Psicometria all'Università di Torino – è ad ogni modo urgente alleggerire le tasse delle imprese». Professore, le assunzioni stabili fanno segnare rispetto all’anno scorso un +36 per cento. Il Jobs Act funziona? «I dati Inps non danno indicazioni particolarmente nuove o meritevoli di commenti. La trasformazione dei contratti di lavoro da forme precarie a stabili c’è ed è positiva. Occorre ricordare però che la decontribuzione sui nuovi assunti, se non viene prorogata, cesserà di produrre questo tipo di effetti. Rischiamo di dover assistere a questa fase come a una bolla transitoria». La Sicilia resta però ferma al palo anche oggi. Perché tanta differenza sulle stabilizzazioni? «I dati indicano ciò che era stato ampiamente previsto: il Jobs Act sta divaricando ancora di più la forbice della qualità occupazionale. Al Nord, dove c’è maggiore osservanza delle regole, gli incentivi del governo funzionano. Nel Mezzogiorno e nella vostra Sicilia, viceversa, dove sono assai diffuse le assunzioni in nero, la riduzione dei contributi genera risultati modesti». Va però considerato ciò che ha illustrato la Svimez: il Nord cresce, il Sud va peggio della Grecia. «Negli ultimi 15 anni è stata l'Italia nel suo insieme a crescere meno della Grecia, non si tratta di una prerogativa esclusiva del Meridione. Certo, i numeri dicono che durante la crisi il Sud è andato peggio del Centro-Nord, ma nessuno dice mai che prima della crisi, dal 2000 al 2007, il reddito pro capite del Sud era cresciuto a un ritmo quasi doppio di quello del Nord. Una situazione che di fatto ha lasciato tutto invariato: il Pil pro capite del Sud resta poco di più della metà di quello settentrionale. Fatto 100 il reddito pro capite del 2000, nel 2013 il Sud è sceso a quota 91.3, mentre il Centro-Nord ha toccato il 91.9». Se il divario rimane invariato, resta comunque importante. «Certo che lo è. Ma non è vero, come è stato detto, che il Mezzogiorno continua a rallentare e il Nord ad accelerare. Se si guardano i dati Istat, si scopre che negli ultimi 15 anni il tasso di crescita del Nord è crollato a tal punto da essere stato a superato da quello modesto del Mezzogiorno». Il Meridione è un deserto industriale: come è possibile? «Da anni si obietta che non cresciamo per la carenza di infrastrutture, per il costo del denaro, per il malaffare, per la lentezza della macchina di Stato. Si tratta indubbiamente di fattori importanti, che non dicono però perché il Nord, attrezzato più del Sud, cresce di meno. La spiegazione che ne ho dato ne La Repubblica delle tasse (Rizzoli, 210 pagg. 18 euro ndr.) è paradossale: numeri alla mano, ciò che ha assicurato al Sud maggiore crescita è stata l’evasione fiscale. Una sorta di autoriduzione delle tasse che ha penalizzato l’economia del Nord gravata da una pressione fiscale sempre maggiore». Spiazzante. Che indicazioni trarre da tutto questo? «Vale quello che ho scritto in un mio libro recente (L'enigma della crescita, Mondadori, 272 pagg. 12 euro). L’unico strumento per crescere in tempi rapidi è ridurre le imposte societarie. Un ragionamento che vale sia nell’ottica di dare fiato al sistema industriale settentrionale, sia in quella di rimettere in marcia il Mezzogiorno. Crocetta lo ha detto molto bene: se si vuole dare una svolta occorre defiscalizzare le imprese che vengono a investire nel Meridione». Il governo studia un piano Marshall per il Sud da 100 miliardi. È la strategia giusta? «Di questi piani si parla da anni, ma si tratta di suggestioni buone per le prime pagine. L’ha detto con coraggio anche Giuseppe De Rita: se mai si riuscissero a liberare fondi di quella entità, si ricadrebbe probabilmente nelle vecchie consuetudini: rotonde, marciapiedi e lungomare. Una miriade di piccoli interventi insignificanti per la crescita, che disperderebbero montagne di denari per alimentare minuscoli appetiti clientelari ed elettorali». Il viceministro Morando ha proposto una decontribuzione selettiva per i lavoratori assunti al Sud: un modo efficace per rendere più incisivo il Jobs Act anche nel Meridione? «È una proposta che guarda nella giusta direzione. Ma in linea di principio, su tutto il territorio, occorre dare sostegno alla sola occupazione incrementale, e cioè soltanto a chi crea nuovi posti di lavoro. Lo abbiamo detto e scritto a suo tempo con la proposta Job Italia. Secondo gli studi che abbiamo fatto con la Fondazione David Hume, 5 anni di eliminazione completa dei contributi sociali per chi assume darebbero una forte accelerata al nostro Pil. E tutto questo avverrebbe a costo zero». A costo zero? «La premessa è che ogni nuovo posto di lavoro crea nuovo Pil, che di rimando crea gettito addizionale che può essere utilizzato per coprire i contributi sociali. Grazie agli studi fatti con la Fondazione Hume, fatta 100 la retribuzione in busta paga, stimiamo che portare il costo del lavoro a 125, creerebbe enormi benefici con un moltiplicatore di 2,64. Per fare un esempio pratico, se l‘anno prossimo le imprese creassero 300mila nuovi posti di lavoro, con questo contratto se ne creerebbero tra i 600 e gli 800mila. E se è vero che i contributi sociali si ridurrebbero di 3 miliardi, le restanti tasse aumenterebbero di almeno 6 miliardi. Avere meno pressione fiscale, salari più alti, ed entrate maggiori per lo Stato è possibile». La Svimez, e in particolare il professor Federico Pica, suggeriscono un drastico taglio dell’Irap. Utile anche questo? «Assolutamente sì. Rilanciare il Paese significa dare ossigeno a chi produce, e quindi ridurre tasse nocive come l’Irap. Occorre anticipare i tempi. Giova insistere: se vogliamo tornare a crescere è urgente alleggerire subito la pressione fiscale su chi crea ricchezza».

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