Sette regioni italiane, su venti, sono andate al voto per eleggere presidenti e consiglieri: ciascuna con regole diverse. Gli elettori veneti, ad esempio, assegnano la maggioranza del 60% dei seggi alla coalizione che raggiunge il 50% dei voti; in Toscana, Pu glia e Marche basta raggiungere una soglia tra il 45% ed il 40%, mentre Campania ed Umbria non prevedono una soglia minima, ignorando che il premio senza soglia ha già indotto la Consulta a bocciare il Porcellum. La maionese impazzita delle regole elettorali regionali riflette un Paese tra l' incudine di un pervasivo fronte europeo ed il martello di un invasivo sistema di autonomie locali. L' Italia è un Paese che giocoforza ha fatto la scelta di cedere spazi ad un Organismo esterno: l' Europa. Le regole comunitarie comportano però una crescente cessione di sovranità, che spinge ad un crescente egoismo nazionale. Ma se l' Europa ha nell' Italia un solo interlocutore, diversa è la situazione interna, dove gli interlocutori dello Stato sono molteplici. È l' immagine di un' Italia frantumata in 20 piccoli statarelli e disomogenea, dove ognuno ha le sue regole e le sue logiche. Persino la salute è gestita su base regionale; e dire che neanche i potenti lander tedeschi si occupano della salute dei propri abitanti. Poi non stupisce se la Costituzione italiana prevede livelli di assistenza sanitaria uguali per tutti i cittadini, mentre regioni come Lazio, Sicilia o Calabria si «garantiscono» la salute soltanto con salatissime addizionali Irpef ed Irap. Con grande travaglio si mette mano alle tante auspicate riforme; è accaduto con la legge elettorale, con la legge sul lavoro e la riforma fiscale; speriamo accada presto con la scuola, la riforma della pubblica amministrazione e la riforma costituzionale. Eppure non passa giorno senza che l' Ocse, il Fmi, la Commissione Europea, la Banca d' Italia, l' Istat non segnalino puntualmente i nostri deficit e chiedano una svolta sostanziale in un Paese bloccato da ritardi antichi. Ma quante volte, in questa campagna elettorale, si è parlato dei problemi della gente e quante volte piuttosto di candidati, più o meno desiderabili? Ci voleva un articolo dell'«Economist» per ricordarci che l' Italia corre nel mondo con una pesante zavorra sulle spalle; è il Mezzogiorno. I numeri usati dal settimanale inglese fanno venire i brividi: 13% di contrazione del reddito nelle otto regioni meridionali dall' inizio della crisi, contro il 7% del resto del Paese; 70% dei nuovi disoccupati; 40% di partecipazione al lavoro contro il 64% del Nord; con il 33% di partecipazione femminile si fa peggio della Grecia; raddoppio del tasso di povertà assoluta, basso tasso di natalità, massiccia emigrazione dei giovani più istruiti. Sulla mappa tracciata dall' Istat con i «Territori del disagio» ci sono quattro puntini rossi che corrispondono alle aree urbane di Napoli, Palermo e Bari, cui si aggiunge un pezzettino della Sicilia orientale. Il fenomeno più evidente è un' altissima densità abitativa, accompagnata dalla tendenza a perdere popolazione ed ospitare pochi stranieri. Evidentemente, scrive il «Sole 24 Ore», la qualità della vita è caduta così in basso da scoraggiare persino gli immigrati. La politica sembra ignorare, però, il monito lanciato dal presidente della Bce, Mario Draghi, in Europa: le divergenze strutturali possono diventare esplosive. Appena pochi giorni fa l' Istat ha fornito un dato di crescita del Pil nel primo trimestre dopo quasi quattro anni. Ma nel frattempo, tra la prima ondata di crisi e la fine del 2014, l' Italia ha perso più di 47 mila imprese manifatturiere. La flessione non accenna a diminuire, dato che solo negli ultimi dodici mesi c' è stata una fuoriuscita di altre 5.700 imprese. I distretti produttivi hanno registrato un incremento delle esportazioni. Bene si dirà, ma è l' Italia dell' efficienza produttiva; il frutto maturo di una porzione del Paese, mentre nel resto clientele e corruzioni fanno crescere la... spesa improduttiva. Nel 2014, per il secondo anno consecutivo, le spese degli italiani si sono attestate su livelli inferiori a quelli dei primi anni 2000. Ancora oggi i consumi camminano a ritmi blandi. Eppure c' è una spesa che non conosce crisi: è quella delle Regioni italiane. Centonovanta miliardi di euro all' anno è la spesa totale; di questa ben 150 miliardi vanno ad ingrossare il fiume della spesa corrente. Ma le Regioni quanto restituiscono ai cittadini sotto forma di servizi? Pochissimo e con forti differenze territoriali. Dopo la riforma del Titolo Ved il federalismo della Lega, le competenze regionali sono cresciute a dismisura e con esse le spese improduttive. Ma tutte le volte che le Regioni sono state al centro del dibattito politico, nel tentativo di contenerne gli ambiti di operatività e di spesa, l' unica cosa a diminuire è stata... la partecipazione al voto dei cittadini! Nessuno si stupisce se la spesa regionale per abitante è di 2.250 euro in Lombardia e di 3.250 euro in Calabria, malgrado il livello di servizi pubblici tra Lombardia e Calabria sia di 3 a 1 (Confcommercio). Nel 1951, ricorda il «Sole 24 Ore», la spesa pubblica complessiva pesava poco meno di un quarto del Pil nazionale (24%); oggi supera la metà (51%). Nel 1951 gli enti locali (Regioni, Province e Comuni) si intestavano il 18% della spesa pubblica complessiva; oggi siamo al 32%. Certo non è mancato qualche taglio; peccato che abbia riguardato in prevalenza le spese per investimenti. Il nostro Paese presenta uno dei tassi di natalità più bassi a livello europeo: 8,5 bambini nati ogni mille abitanti; secondo il Censis le cause economiche rappresentano la prima spiegazione. Alla radice della fragilità della condizione giovanile c' è la mancanza di lavoro; in meno di dieci anni sono scomparsi oltre 2,6 milioni di occupati giovani. È questo il dramma silenzioso del nostro Paese: pochissimi bambini e giovani senza lavoro. Prima dell' avvento delle Regioni, c' era un Nord ricco ed un Sud povero; dopo le Regioni, il Nord è più ricco ed il Sud sempre più povero. La ricetta? Spostare quattrini dalla spesa improduttiva a quella per gli investimenti. Una Regione non può e non deve assumere persone; deve realizzare porti, aeroporti, strade, autostrade, acquedotti, ferrovie, scuole, fognature, raccogliere i rifiuti ed assicurare il servizo idrico; tutto quanto serva a stimolare lavoro vero. Ma dove prendere le risorse? Non certo con nuove tasse. È più che mai tempo di tagli alla spesa pubblica. Tutti d' accordo! Ma c' è sempre una consultazione elettorale in agguato.