Le mani della mafia sull’agricoltura. Dai prodotti di dubbia provenienza spacciati per genuini al caporalato nelle aziende, tutto frutto, secondo il presidente di Coldiretti Sicilia, Alessandro Chiarelli, di grandi regie che piegano anche chi colluso non è. Dal «Rapporto Agromafie» emerge che in Sicilia la criminalità è molto presente, si stima che l’Isola rappresenti un terzo del giro d’affari su cui la malavita mette le mani, cioè 5 miliardi di euro. Perché la Sicilia è ancora così debole? «La mafia ha sempre avuto storicamente un grande interesse sulla proprietà agraria, non ha mai smesso di metterle gli occhi addosso. Sono enormi gli interessi che scaturiscono dalla produzione e dalla gestione della produzione agricola. L’importanza di questo documento è proprio quella di dimostrare che la malavita oggi ha ancora grande interesse a inserirsi in questo comparto. E poi la mafia ha sempre guardato al feudo, ricordiamoci che Verbumcaudo era fiore all’occhiello di Michele Greco, lì si incontravano i mafiosi e facevano le battute di caccia, era un modo per darsi arie da aristocrazia terriera. È il primo esempio dell’attenzione che l’autorità giudiziaria ha posto su quanto la mafia ostentasse la proprietà terriera». Qual è oggi il meccanismo di infiltrazione della criminalità nel comparto agricolo? «C’è un controllo costante. Innanzitutto sul trasporto. La merce si muove su gomma. C’è una sentenza della Cassazione che ha condannato noti personaggi siciliani proprio perché condizionavano le aziende per l’utilizzo di alcune aziende di trasporti, aziende in parte già sequestrate e in parte oggetto di indagine. Sin dalla movimentazione c’è un condizionamento. E se un imprenditore non è libero di portare la propria merce dove vuole con chi vuole, figuriamoci se può stabilire i prezzi. Ma non è solo il trasporto, c’è il caporalato. Vi è un grande gruppo che ha un processo in corso perchè subiva l’imposizione del personale. Cosa resta al proprietario? Solo soffrire, chiedere i finanziamenti e qui arrivano gli usurai. Il condizionamento sta nei fornitori, nel movimento terra, nei reimpianti. In un tessuto dove la mafia ha ancora grandi interesse - oggi che non c’è più né il business dell’edilizia né per fortuna quello della raffinazione della droga, oggi che i pentiti aumentano -, ci si è rispostati sulla terra che è un interesse ancora solido. La mafia che ha molti capitali da investire e la “mafiosità” da esercitare torna a fare quello che ha sempre fatto. Del resto tutti i mafiosi li hanno presi in campagna o hanno sempre frequentato sempre i feudi sui quali non c’è vigilanza». Dai furti di agrumi e di bestiame all’imposizione del pizzo, di cosa soffre maggiormente la Sicilia? «È un insieme di cose. Il furto degli animali danneggia solo gli allevatori perbene. Ma sono fatti per condizionarlo, per tenerlo sotto scacco, mentre chi è mafioso o chi è vicino al mafioso non è toccato. C’è la grande mafia che gestisce l’importazione della cagliata dai Paesi extra Ue, c’è quella che importa vino sofisticato e arance della Tunisia. C’è il mercato di Vittoria che è stato più volte oggetto di controlli e inchieste, c’è la mafia che si occupa di gestire le grandi scorte attraverso aziende agricole di trasformazione e ristoranti. C’è una strategia complessiva che investe tutti i comparti. Non è una mafia diversa in tanti comparti, ci sono invece tante regie, tanti livelli. Da quello più basso che rappresenta il controllo del territoriale, del pastore che spara o di chi controlla gli svincoli autostradali per far passare le merci, a quello più alto, quello che si occupa di investire tanti soldi, di gestire alla grande come la mafia sa fare, grandi potentati che controllano tutta la filiera. Quei 5 miliardi di business “sporco” sono i grandi gruppi, non il contadino che si alza per onorare il pane che produce e che ci nutre. È un sistema di connivenze fra grandi gruppi, banche comprese». Significa che la mafia controlla tutto? «No, vorrebbe controllare tutto. Ma per fortuna c’è lo Stato che contrasta e le aziende che resistono. Però vede, anche le aziende sane, che lottano, poi subiscono il prezzo comune. Se grazie a chi inquina il mercato questo prezzo è basso, anche il produttore onesto deve comunque sottostare a quel prezzo. Anche chi non è colluso o acquiescente lo subisce». Su quali prodotti siciliani in particolare vengono imposti prezzi troppo bassi? «Su tanti. In tutta Italia il latte di capra si paga da un euro a un euro e 10, in Sicilia fra 74 e 84 centesimi, Iva compresa. Come mai il prezzo riesce a maturare in tutta Italia e in Sicilia no? È evidente che c’è una regia economica legata a situazioni poco chiare, una regia che decide quel prezzo non debba salire. E lo fa per far sì che produzione genuina e quella sofisticata debbano essere sullo stesso banco e allo stesso prezzo, così vince poi chi non ha le stesse spese. O il prezzo dell’uva? Quest’anno il raccolto è stato inferiore, eppure il prezzo è meno della metà dell’anno precedente. Ci sono scorte mondiali di vino anche di bassissima qualità che poi arrivano con documenti falsi e diventano Igp, Doc. Altro esempio sono le arance: quest’anno non è stata una buona annata, eppure le arance ci sono e le stanno pagando. Perché? Perchè entrano migliaia di tonnellate di arance maghrebine che sulle tavole arrivano come arance siciliane. Sono straniere, ecco vorrei comprarle in quanto tali. E ancora il latte di vacca. Produciamo un decimo del fabbisogno siciliano, il prezzo è più basso. Poi si importa dall’Austria o dal resto d’Europa e lo si paga di più, ma quello siciliano no. Sono strategie diverse da quelle del libero mercato, è evidente che ci siano delle storture». Ma quali possono essere i correttivi? «Ogni auto ha un telaio, al quale corrisponde un numero. È una garanzia per tutti, la corrispondenza di quel numero a una e una sola auto. Ecco, dovrebbe essere la stessa cosa per il cibo. Bisognerebbe essere più ortodossi su tracciabilità, percentuali di succo utilizzato, tappo antirabbocco. Solo così possiamo avere certezza. Servirebbe una sorta di libretto unico nel mondo per identificare con certezza i prodotti. E dovrebbe essere una battaglia unica all’interno dell’Ue, senza differenze far produttore e trasformatore. Perché chi cerca scorciatoie è perché deve fare interessi diversi». Oggi molte delle frodi viaggiano sul web. La Sicilia avverte questo problema o è ancora troppo legata ai canali di vendita tradizionali? «Sul commercio spicciolo ancora no, le frodi per noi valgono appena pochi milioni di quei cinque miliardi. Internet rappresenta una via di comunicazione, non è il canale principale. Però qualche problema ce lo darà in futuro». Criminalità significa anche vendere come genuini prodotti che non lo sono e portare nel mondo marchi contraffatti. Quali sono i prodotti siciliani più a rischio di subire contraffazioni e frodi? «Certamente l’olio extravergine di oliva: arriva in Italia olio di scarsa qualità e si confonde, viene “rettificato”. Sull’olio avviene una delle maggiori truffe non solo ai danni dei produttori ma anche dei consumatori. L’olio si dà ai bambini molto piccoli, a chi è convalescente. La truffa significa giocare con la salute delle persone. Quest’anno la produzione è stata scarsa, l’olio extravergine dovrebbe essere pagato 11 euro al litro ma viene venduto ancora fra 6 e 7 euro, il prezzo non sale perché c’è chi ha rimpinguato la filiera con olio che non è extravergine. Il traghetto Norman affondato era carico di olio che stava arrivando in Italia. Bisognerebbe verificare quanto ne sbarca e di che qualitàè, e non con indagini a campione ma controlli precisi. Invece i flussi doganali non si possono sapere, ci sono ancora aspetti oscuri che si devono superare. Ma i prodotti contraffati sono anche quelli dell’ortofrutta in genere, il primo è il pomodorino di Pachino: anni fa furono fermate delle auto che arrivano dall’Olanda cariche di prodotti ottenuti fuori suolo pronti ad essere commercializzati con le etichette di un noto prodotto inscatolato. E ancora i formaggi a pasta filata, uno su dieci è prodotto con cagliate estere, il vino, il miele. Il vino nel Nord Europa può essere prodotto con l’aggiunta di zucchero, al Sud no. E l’Ue ha sempre detto no a una regolamentazione. Bisogna far emergere tutto e rendere le filiere trasparenti, con regole chiare». Parlando di criminalità e agricoltura, in Sicilia ci sono tantissimi beni confiscati alla mafia che vanno riutilizzati. Quale potrebbe essere la loro destinazione? «Sono una grande risorsa e non possono essere lasciati al degrado no. Devono essere messi a produzione, affidati a giovani, a cooperative, a persone svantaggiate ed ex detenuti, a case famiglia. Ma non devono restare improduttivi perché così la mafia li governa, anche indirettamente». Il pericolo che la criminalità possa mettere le mani su Expo 2015 è noto. La Sicilia ha un ruolo importante che è quello di coordinare il Cluster Biomediterraneo. Come fare per evitare infiltrazioni illegali? «Bisogna verificare ogni singola azienda, sapere ogni singola società a chi fa capo. Fare attenzione senza però fare dietrologia. E anche sugli appalti le norme ci sono, vanno applicate, no ad esempio ai massimi ribassi. Quando però consentiamo appalti su un ponte a grandi gruppi e poi subappalti a ditte poco chiare, la colpa è siciliana o del sistema? Ricordiamoci che dobbiamo puntare su turismo, ambiente e agricoltura. Si pensi allora a liberare le campagne dai rifiuti».