Giovedì 19 Dicembre 2024

Jobs Act: scontro sugli statali, Poletti: "Vale solo per i privati"

ROMA. Risorse per la nuova Aspi, licenziamenti collettivi, validità o meno delle norme anche per il pubblico impiego. L'approvazione dei decreti attuativi del Jobs act nel consiglio dei ministri del 24 dicembre ha lasciato ancora molti nodi da sciogliere, sui quali partiti politici e sindacati (ma anche esponenti dello stesso governo) annunciano già battaglia in Parlamento, nelle piazze, nelle fabbriche ed anche nei tribunali. La prima partita si gioca proprio sul nuovo ammortizzatore sociale destinato ad assorbire progressivamente i precedenti Aspi e mini-Aspi e a mandare in pensione la cig in deroga. Il decreto attuativo è stato infatti approvato «salvo intese», in assenza cioè della bollinatura finale della Ragioneria generale dello Stato e l'individuazione certa delle coperture. Al momento l'unico importo scritto nero su bianco è quello inserito nella legge di stabilità che ai nuovi ammortizzatori destina 2,2 miliardi per ciascun anno 2015 e 2016 e 2 miliardi di euro per gli anni a seguire a partire dal 2017. Le risorse potrebbero però non bastare: nel 2013, ad esempio, - anno, è vero, di crisi profonda, non necessariamente destinato a replicarsi - secondo i dati Inps, Aspi e mini-Aspi sono costati ben 7,5 miliardi di euro. Anche senza arrivare a quelle cifre, comunque, il problema risorse resta, tanto che già nel corso dell'esame della legge di stabilità le minoranze del Pd avevano chiesto ulteriori stanziamenti. C'è poi la questione dei licenziamenti collettivi. Inaspettatamente il decreto prevede infatti che le regole sui licenziamenti individuali valgano anche per quelli di almeno cinque lavoratori. Una regola che forse è servita per placare gli animi più bellicosi all'interno della maggioranza ma che ha mandato su tutte le furie i sindacati. Non solo la Cgil, già pronta a nuovi scioperi e a ricorsi giudiziari contro tutto il pacchetto, ma anche la finora più cauta Cisl. Proprio l'ex sindacalista Cesare Damiano promette il suo impegno, invitando anche ad apprezzare quello che finora è stato ottenuto. Sicuramente, in qualità di presidente della Commissione Lavoro della Camera, si batterà per ricondurre la norma ai soli licenziamenti individuali, ma nel frattempo, sottolinea, l'importante è essere riusciti a disinnescare quelle che parti del Pd vedono come le bombe dello scarso rendimento e dell'opting out, fortemente volute invece da Ncd. Qualsiasi sia il parere che le Commissioni parlamentari invieranno al governo, l'esecutivo non sarà comunque obbligato a tenerne conto, visto che sulle deleghe le indicazioni parlamentari non sono vincolanti. Ultima questione, sollevata dal senatore di Scelta Civica Pietro Ichino, è poi quella dell'estensione del contratto a tutele crescenti anche agli statali, smentita però dal governo. Finora il Jobs act, spiega il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, è infatti sempre stato visto come strumento per favorire le assunzioni nel settore privato, tirando in ballo solo ed esclusivamente le imprese e mai lo Stato come datore di lavoro. Anche il ministro della P.a. Marianna Madia ha in più occasioni smentito una generalizzazione delle norme. Per questo l'interpretazione di Ichino, secondo cui l'assenza di un riferimento esplicito all'esclusione degli statali si traduce in un loro coinvolgimento, è arrivata del tutto a sorpresa. Obbligando il governo (e lo stesso Renzi tramite il responsabile economico del Pd Filippo Taddei) a continue precisazioni. Precisazioni che però non bastano a Enrico Zanetti, sottosegretario all'Economia e compagno di partito di Ichino, che in serata mette nero su bianco la sua irritazione: «Trovo francamente sconcertante questo affannarsi di alcuni ministri nel negare l'applicabilità del Jobs act al pubblico impiego» dice sottolineando che il dualismo con i privati «non sta in piedi».

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