La Sicilia, una crisi nella crisi. Un buco più profondo di altri. Dove persino i termini cambiano, «con la mancanza di fiducia economica che diventa disperazione storica».
Provare a colmarlo, quel buco, secondo David Lane, corrispondente da Roma per The Economist, significa «troncare la dipendenza del lavoro e delle aspettative dei cittadini dalla politica, prendere a modello i settori che, come quello del vino, si sono imposti all'attenzione del mondo facendo miracoli a dispetto di ogni difficoltà».
«E, soprattutto, instaurare un rapporto nuovo con la finanza: troppo importante, nell'Europa di oggi, il ruolo del capitale privato». Lane, da 40 anni in Italia, ha coordinato nei giorni scorsi a Palermo le Giornate dell'economia del Mezzogiorno della Fondazione Curella.
L’Isola ai tempi della crisi: quali i punti di debolezza e di forza per uscirne? E quali le scelte da fare senza indugio?
«I punti deboli li conosciamo da anni: lavoro, crisi dell'industria, emigrazione. Sullo sfondo, l'ostacolo economico più grande, oggi che lo Stato e le Regioni non hanno più soldi: la dipendenza dal settore pubblico. E, dove qualche soldo c'è, la cattiva gestione e il malgoverno. Il pubblico deve fare scelte politiche, la più importante delle quali, ora che i grandi insediamenti industriali sono un sogno finito, è favorire le forze dei privati, in termini di finanza come di impresa. Anche scendere in campo direttamente si può e si deve: bene, facciamo le infrastrutture, allora. Ma sappiamo bene come va a finire spesso negli appalti pubblici. Nascondono malaffare e rischiano di non finire mai. Girando per Londra, senti parlare italiano e pure profumo di arancine. Non si possono tenere tanti talenti legati ai favori del politico di turno».
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