Lunedì 23 Dicembre 2024

Carla, Daniela e la maestra siciliana: storie di donne sole diventate povere

Quattrocento euro non cambiano la vita, ma fanno in modo che la condizione di povertà non diventi miseria nera. Davanti a sei milioni di persone in stato di povertà assoluta, molte delle quali appartenenti a una fascia sociale media caduta in disgrazia, chi conosce la realtà dell'assistenza sul territorio si interroga e cerca soluzioni. Il reddito minimo di inclusione sociale potrebbe essere una risposta: lo chiedono al governo nazionale le venti organizzazioni, dalle Acli alle Caritas, dal Forum del terzo settore al Banco alimentare, che formano il cartello l'«Alleanza contro la povertà in Italia». Solo il nostro Paese, oltre la Grecia, in Europa non gode ancora di questa misura di sostegno alle famiglie. «Eppure sarebbe una risposta importante per accompagnare i tantissimi componenti di questo ceto medio impoverito», sostiene Paolo Lambruschi, caposervizio degli Interni del quotidiano Avvenire, conoscitore del lavoro svolto dalle associazioni in ambito sociale. Cosa si intende per ceto medio impoverito? «È una definizione usata da sociologi e commentatori da quando è cominciata questa crisi, per inquadrare quella categoria di impiegati, operai specializzati, commesse di una certa età dei grandi magazzini, ma anche insegnanti precari, piccoli commercianti, che hanno perso il lavoro e si trovano nel bisogno assoluto. Spesso si tratta di storie di solitudine familiare, di figli unici di genitori figli unici, persone sole che non hanno reti familiari, non sanno a chi chiedere aiuto». Lei ha incontrato qualcuno di loro. Come vivono? «Ho incontrato nomi e volti in un dormitorio per sole donne a Torino, gestito dal Gruppo Abele, nel Nord ancora ricco, città che possiede tra i servizi sociali migliori d'Italia. Un luogo pulito e dignitoso, ricavato in una fabbrica dismessa dove le ospiti, donne che hanno perso il lavoro e sono rimaste sole e senza casa, entrano alle 19 per la cena ed escono la mattina dopo la colazione. Vite normali, finite nell'abisso. Solo alcune avevano voglia di parlare, mi hanno raccontato di un disagio che non può essere superato con 181 euro di sussidio, nelle città in cui questo è garantito. Ma ogni centro di accoglienza può confermare il forte aumento di casi come questi». Quali storie l'hanno colpita di più? «Ho incontrato Daniela, che ha da poco superato i 50 anni. Nubile, ha lavorato per vent'anni come informatore scientifico, poi ha dovuto licenziarsi per assistere la madre malata. Era il 2007. Cinque anni dopo, quando la mamma è morta, lei compiva il mezzo secolo e finiva i risparmi di una vita. Non è più riuscita a trovare occupazione e non riesce a scordare l'umiliazione dello sfratto. Ha il sussidio, ma come si vive con sei euro al giorno? Anche Carla vive di sussidio a neppure 40 anni, alle spalle ha una violenza familiare e un matrimonio finito con un uomo che di giorno faceva l'ambulante e di sera, a sua insaputa, spacciava droga e l'ha lasciata nei guai. Ha fatto la lavapiatti e la panettiera, sempre con contratti interinali. Si domanda spesso se per lei ci sia ancora futuro. C'era anche una maestra precaria siciliana, venuta al Nord per ottenere la cattedra, ma questa volta senza successo. Una vergogna per lei tornare nel suo paese, aveva investito molto in quella scelta. Così meglio accontentarsi della mensa e del dormitorio. Volti di donne con l'unica colpa di essere povere, sole e senza reddito in un Paese il cui welfare è fermo al secolo scorso». Il reddito minimo potrebbe essere una soluzione? «Se l'Italia avesse avuto, come ne sono dotati tutti i grandi Paesi europei, una misura come il reddito di inserimento, il ceto medio impoverito e quelle persone che vivono sul bordo dell'emarginazione avrebbero oggi più dignità e maggiori speranze di ricominciare. L'“Alleanza contro la povertà”, che ha presentato la proposta di una legge che istituisca un reddito minimo, stima che la spesa a regime per dotarci di questo strumento sia di 7 miliardi. Ne beneficerebbero almeno 4 milioni di persone. Sarebbe l'1% della spesa primaria corrente, non aggraverebbe enormemente il debito pubblico. In Italia non si è mai percorsa questa strada, perché non è facile capire chi sono i furbi che potrebbero approfittarne. Ma non può essere questo un alibi per rinunciare a una riforma necessaria, che si aggiungerebbe alle altre misure a sostegno di chi ha bisogno di venire fuori dalla povertà. Circa 400 euro al mese per un periodo di tempo circoscritto, con l'obbligo di accettare le proposte di lavoro, con una serie di controlli: questa potrebbe essere una soluzione seria». I dati sulla deflazione in crescita forniti dall'Istat non sono incoraggianti. C'è il rischio che questo ceto medio impoverito si allarghi, abbracciando anche commercianti danneggiati dal crollo dei consumi? «Sicuramente sì. È un circolo vizioso: deflazione, stagnazione sono aspetti di questo processo di impoverimento. Il reddito di inclusione sociale è una misura importante».

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