ROMA. Gli italiani si ritrovano a fare i conti con budget sempre più stretti: gli stipendi non crescono, rimangono al palo, e, invece, i prezzi continuano la loro corsa. In altre parole il potere d'acquisto si assottiglia, perdendo pezzi di mese in mese. L'Istat, infatti, certifica per novembre retribuzioni ferme rispetto ad ottobre e in aumento solo dell'1,5% a confronto con lo scorso anno. Un rialzo troppo basso, che si riallinea al peggior dato del 2010, che riportava indietro di dodici anni. Nello stesso mese l'inflazione è salita del 3,3%, ovvero a un ritmo più che doppio. Inevitabile, quindi, l'allargamento della forbice tra caro vita e buste paga, che aggiorna il precedente record, salendo ai massimi dal 1997.
Il 2011 rischia di diventare, così, un anno nero per i redditi da lavoro, stretti da una morsa fatta di tasse e inflazione. E non aiuta l'attività contrattuale, congelata in un settore come la Pubblica amministrazione che conta tre milioni di persone. Se non ci dovessero essere novità, come dovrebbe avvenire, la crescita delle retribuzioni contrattuali si fermerà all'1,8%, un bilancio annuo che potrebbe risultare tra i peggiori da più di una decade. Mentre la crescita acquisita dei prezzi per il 2011 è ben superiore, pari al il 2,7%. Quindi, lo scarto tra salari e prezzi accumulato in tutto l'anno potrebbe riservare altri picchi negativi.
Tornando al mese di novembre, l'immobilità degli stipendi si spiega facilmente: sono ancora 30 gli accordi contrattuali da rinnovare (di cui 16 appartenenti alla Pa), relativi a 4,1 milioni di dipendenti. Ciascuno in media dovrà attendere quasi due anni per vederselo aggiornare. Guardando categoria per categoria, nessun settore vanta un aumento retributivo maggiore
dell'inflazione. I dipendenti che se la cavano meglio sono gli occupati nel comparto della lavorazione della gomma e i vigili del fuoco (+3,1%).
Non si tratta solo di freddi numeri: anche il sondaggio, condotto, sempre dall'Istat, sul clima di fiducia dei consumatori, registra un crollo, con l'indice che scivola da 96,1 a 91,6. Un'avanzata di pessimismo che non si registrava, anche in questo caso, dai tempi pre-euro, dal lontano 1996. A preoccupare gli italiani sono le condizioni generali dell'economia, in particolare le aspettative negative sulle possibilità di risparmio, con i timori di prezzi in crescita. Come se non bastasse, peggiorano anche le aspettative di disoccupazione.