Se le statistiche da tempo ci rivelano che le lettrici superano abbondantemente i lettori, anche tra chi scrive la quota rosa è sul punto di conquistare l’egemonia, come testimonia l’ultimo Premio Strega (nella cinquina finalista quattro donne, tra cui la vincitrice, e un solo uomo). Sebbene sia assai difficile tracciare linee di confine tra la «scrittura maschile» e «femminile» senza cadere nelle trappole dei luoghi comuni, la recente editoria mette in risalto l’inclinazione delle donne al genere biografico. Sarà pure un caso, ma tra i libri recenti di maggiore successo vi sono tre biografie di donne scritte da donne. Il primo è l’autobiografico «Vita mia» di Dacia Maraini, edito da Rizzoli. In «Vita mia» la Maraini ripercorre la drammatica esperienza di internamento in un campo di concentramento in Giappone vissuta da piccola. Nel 1939 l’antropologo Fosco Maraini, si trasferisce con la moglie Topazia Alliata – pittrice e gallerista della migliore aristocrazia bagherese – e le due figliole Yuki e Dacia, che ha appena tre anni, a Sapporo, nell’isola di Hokkaidō per studiare la civiltà degli Ainu. Tutto scorre sereno, nel 1941 nasce la terza figlia Toni, fino a quando l’8 settembre del 1943, con l’armistizio e la rottura dell’alleanza dell’esercito italiano con quello tedesco, nasce la Repubblica di Salò e i giapponesi chiedono ai coniugi Maraini di giurarle fedeltà. Prezzo del loro rifiuto sarà una vita da incubo, tra la fame, il gelo e le continue vessazioni, condivisa con altri prigionieri. Pagine intense non prive di accenti poetici, quelle di «Vita mia» («Giappone, 1943. Memorie di una bambina italiana in un campo di prigionia», il sottotitolo), che denunciano la disumanità dell’internamento e la brutalità della guerra con una risonanza particolare perché quegli orrori passano dinanzi agli occhi di una piccola che si rifugia nei giochi. Mentre la Maraini è una scrittrice di lungo corso da decenni punta di diamante della narrativa italiana, la siracusana Simona Lo Iacono – che coniuga la professione di magistrato con la passione per la scrittura – in questi ultimi anni si è andata affermando sempre di più per la sua alta cifra stilistica e la carica emotiva dei suoi romanzi spesso ispirati da biografie (quella di Lucia Salvo ne «Il morso», di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne «L’albatro», della scienziata Anna Maria Ciccone ne «La tigre di Noto»). La sua ultima fatica, «Virdimura» (Guanda editore), racconta, col pathos e la delicata eleganza che le sono proprie, la vita della prima donna a occuparsi di medicina nella febbrile Catania del XIV secolo. Virdimura è un’ebrea campione di coraggio, determinazione, spirito compassionevole. La sua vita non è facile e tante sono le battaglie che conduce con a fianco prima il padre poi l’amico d’infanzia e anche lui medico Pasquale: contro l’antisemitismo, i pregiudizi, le superstizioni, e per affermare il diritto a esercitare la medicina e ad essere curati nei corpi e nell’anima: «Ricorda. Se un malato è incerto, chiedigli cosa ha sognato. Se è sicuro, chiedigli in cosa ha sperato. Curali partendo non dai loro corpi, ma dai loro lutti». Né manca nel romanzo – come in genere nella narrativa della Lo Iacono - l’afflato religioso: «Lo Dio stava in quel luogo che i dutturi evitavano per non contagiarsi con il disonore. Stava nei letti disfatti. Nella resa delle più anziane. Nel trucco sbavato. Stava dove nessuno voleva stare». Dora Marchese è una saggista catanese che predilige le indagini letterarie ad ampio raggio soprattutto riferite alla Sicilia. Tra i suoi libri, «L’epica della passione. La Sicilia di Macalda di Scaletta, Lisa Puccini e Gammazita», ritratto di una cortigiana ambiziosa e anticonformista del XIII secolo, femminista ante litteram. L’ultimo suo libro, «Adelaide Bernardini, la “chimera” della letteratura» (Euno edizioni) disseppelisce dall’oblio una scrittrice dai più conosciuta come la moglie di Luigi Capuana. Condizione, questa, che se da un lato le consentì di frequentare i salotti culturali più esclusivi, dall’altro la condannò a essere sottovalutata a priori se non addirittura – complice anche il suo carattere spigoloso - a diventare oggetto di scherno. La Marchese ne tratteggia la figura (la Bernardini, di origini umbre, fu, oltre che scrittrice e poetessa, critica, giornalista e librettista) e ne analizza con spirito critico scevro da preconcetti l’intera produzione trovandone la più appropriata collocazione nel contesto letterario di fine Ottocento e inizio Novecento. Al di là dell’attenta e organica disamina della produzione letteraria della Bernardini prima d’ora mai realizzata, tra le pagine del suo saggio affiorano giudizi sprezzanti o comunque riduttivi sulle scrittrici e giornaliste dell’epoca. Ad esempio, nel 1885 Camillo Antona-Traversa descriveva le donne contese da giornali come «donnine nevrotiche, non senza ingegno, di leggiera e svariata cultura, divise da’ mariti, separati dagli amanti, signorine e signore al tempo stesso» e Benedetto Croce delle scrittrici metteva in luce lo scarso rigore letterario compensato in qualche misura dal «calore e colore del loro stile». Più tardi Antonio Gramsci definiva Carolina Invernizzi «un’onesta gallina della letteratura popolare» e in tempi recenti Umberto Eco qualificava come «merce per donne e domestiche» i prodotti letterari scadenti. Ma i tempi sono cambiati e la riscossa delle scrittrici – non solo di testi biografici – è in piena opera. Al punto che, se non oggi domani, è chi porta la cravatta e non la gonna a dovere temere dall’altro genere giudizi derisori…