La considerazione più triste che si possa fare sulla morte di Sinead O’Connor, che si è spenta oggi a 56 anni, è che la sua vita è stata un calvario. I suoi messaggi lanciati attraverso i social qualche anno fa mettono i brividi, sono lampi carichi di angoscia, solitudine e di quella disperazione che può provare solo chi è prigioniero della malattia mentale. Sinead, che aveva cambiato il suo nome all’anagrafe in Magda Davitt prima di convertirsi all’Islam e adottare, nel 2018, quello di Shuhadà Davitt, era nata a Dublino nel 1966 con un talento smisurato e un’anima tormentata. Era arrivata in modo dirompente sulla scena rock degli anni ‘80: a 19 anni aveva esordito con The Lion and the Cobra, un album che teneva insieme rock ed elettronica con una combinazione potente e originalissima di malinconia e furore dominata da una voce dal timbro unico in cui gli echi dei canti tradizionali si sposavano con l’attitudine rock. Un’apparizione folgorante, con quel viso di una bellezza infantile in cui spiccavano gli occhi dallo sguardo magnetico e carico di malinconia e il proverbiale taglio di capelli cortissimo. Anche l’America si accorse subito di lei e quando, nel 1990, ha pubblicato Nothing Compares 2 U, un gioiello di Prince fino ad allora rimasto nascosto, e ha conquistato le classifiche mondiali, tutto lasciava immaginare che la O’ Connor sarebbe arrivata molto lontano. In quegli anni era diventata un’icona, il simbolo di un nuovo modo di essere artista donna, totalmente diversa dal divismo pop alla Madonna: lei era piuttosto l’erede delle prime eroine del Punk e della New Wave, un personaggio fuori dal coro, che non aveva, e non ha mai avuto, paura di essere disturbante. Non a caso, sempre nel 1990, Roger Waters la scritturò nel cast All Star del mega concerto di The Wall, organizzato a Berlino in Postdamer Platz per celebrare la caduta del Muro: in quell’occasione cantò Mother insieme a The Band. Ma già due anni dopo la serenità della sua carriera ha cominciato a incresparsi: prima l’annuncio che si sarebbe rifiutata di suonare nel New Jersey se fosse stato suonato l’inno americano poi uno degli episodi più controversi della sua tormentata esistenza: ospite del Saturday Night Live, cambiò i versi di War, una canzone di Bob Marley, trasformandola in un attacco contro la Chiesa Cattolica, accusata di insabbiare i reati di pedofilia. Al termine dell’esibizione stracciò una foto di Papa Wojtyla, dichiarando «combatti il vero nemico». Quel gesto, che è stato il primo sintomo di un rapporto sempre più sofferto con la religione, le è rimasto addosso come una lettera scarlatta, compromettendo il rapporto con il pubblico e l’industria mentre il suo talento cominciava a declinare e la sua stabilità a traballare: impegni annullati, sparizioni dalla vita pubblica, annunci di ritiro dalle scene, ritorni, un paio di buoni album, la pubblica ammissione di soffrire di disturbo bipolare. Sulle sue vicende aleggiava un senso di insopprimibile malessere, insieme alla paura, per chi riusciva a starle vicino, di un gesto definitivo. Quello che nel gennaio dell’anno scorso ha compiuto suo figlio Shane appena diciassettenne, dopo essere fuggito da un ospedale dove era ricoverato proprio perché aveva manifestato tendenze suicide. Nella disperazione di quel momento annunciò in un tweet l’intenzione di «seguire mio figlio». Poi si scusò, dichiarando che si sarebbe curata. Una deriva tristissima che affondava le radici nei traumi dell’infanzia e che ha finito per trasformarla da artista dotata di un talento che le avrebbe permesso di arrivare a qualsiasi traguardo, in un caso di cronaca. Con una frase fatta si può dire che purtroppo ora le sue pene sono finite: il miglior modo di ricordarla è ascoltare a tutto volume le canzoni dei suoi giorni felici. (ANSA).