“E la bella Trinacria, che caliga | tra Pachino e Peloro, sopra 'l golfo | che riceve da Euro maggior briga, | non per Tifeo ma per nascente solfo, | attesi avrebbe li suoi regi ancora, | nati per me di Carlo e di Ridolfo, | se mala segnoria, che sempre accora | li popoli suggetti, non avesse | mosso Palermo a gridar: "Mora, mora!”. Dante racconta così la Sicilia nell’VIII canto del Paradiso della Divina Commedia. Con una descrizione molto precisa nonostante non esistano testimonianze storiche su una sua presenza nell'Isola. Versi rispolverati oggi nel ribattezzato Dantedì, il giorno in cui il sommo poeta viene ricordato in tutto il mondo, a partire naturalmente dalla sua Italia, in occasione dei settecento anni della sua morte. "Non si può non ricordare - dice l'assessore regionale ai Beni culturali e all'Identità siciliana, Alberto Samonà - il suo amore per la Sicilia e l’alto concetto riguardo il Siciliano, non un semplice dialetto, ma una lingua. Dante, d’altronde, considerava la scuola siciliana Federiciana alle origini della nostra lingua e letteratura e il suo promotore, Federico II di Svevia, nonostante la collocazione all’Inferno perché 'eretico epicureo', un grande imperatore in quanto il suo regno era espressione di civiltà, spirito etico e magnanimità".