Lunedì 23 Dicembre 2024

Dante e la Sicilia, un amore profondo ma a distanza

La statua di Dante a Firenze

Il prossimo anniversario dei settecento anni della morte di Dante (14 settembre 1321) non passa, come è giusto che sia, inosservato. Tante le iniziative, sin dallo scorso anno, per celebrarlo pur nell’emergenza Covid-19, e due saggi divulgativi che si contendono il primato tra i libri più letti: "Dante" di Alessandro Barbero (Laterza) e "A riveder le stelle" di Aldo Cazzullo (Mondadori). Per onorare come merita i settecento anni della morte di Dante, dovremmo ricordarci della sua particolare predilezione per la Sicilia. Che, tra i primi - scrive Antonino Cangemi sul Giornale di Sicilia oggi in edicola -, mise in risalto Pascoli quando, docente all’Università di Messina, tenne il 18 febbraio del 1900 una conferenza sul padre della lingua italiana presso la Società Dante Alighieri della città dello Stretto. Con un incipit piuttosto eloquente: "Alla Sicilia tendeva il cuor di Dante". L’affermazione di Pascoli trova riscontro in più di un passo della Commedia. A cominciare dai versi in cui la Sicilia, con un’articolata parafrasi, è esplicitamente richiamata: "E la bella Trinacria. che calìga / tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo / che riceve da Euro maggior briga, / non per Tifeo ma per nascente solfo". Siamo nel Paradiso e a invocare la Sicilia è Carlo Martello che rimpiange di non avere potuto regnarvi, né lui né i suoi discendenti, per la "mala signoria" degli Angioini che provocarono la rivolta dei Vespri inducendo "Palermo a gridar: 'morra morra!'", cioè morte ai francesi. Sebbene lo collochi all’Inferno perché eretico epicureo, Federico II di Svevia gode della sua massima considerazione. Il suo regno è espressione di civiltà, spirito etico, magnanimità. La "scuola siciliana" Federiciana è, per Dante, alle origini della nostra lingua e letteratura, e anzi a esse dà linfa e impulso. Nella "scuola siciliana" ricomprendeva tutta la poesia precedente al "dolce stil novo". Già nella "Vita nova" Dante riconosce ai rimatori siciliani un primato sotto il profilo linguistico: "Quasi fuoro i primi che dissero in lingua di sì", ovvero l’insieme dei volgari d’Italia. Nel "De vulgari eloquentia" il poeta passa in rassegna i vari dialetti, cercando quello che possa sostituire il latino, non più attuale, e conferire unità linguistica all’Italia: un volgare che sia illustre, da dar lustro a chi ne fa uso, cardinale, perché faccia da cardine alle altre parlate, aulico, in quanto degno di un regno, curiale, da potere essere usato in una curia. Non lo trova, ma tra tutti considera il siciliano dei poeti della "scuola Federiciana" il più illustre.

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