ROMA. Come si fa a parlare di Vittorio Taviani senza suo fratello Paolo? Come si fa a dire dei meriti dell'uno senza rendere onore all'altro quando forse nemmeno tra loro sapevano più dividersi i ruoli senza una spontanea e naturale simbiosi? Se c'è un segreto nella collaborazione quasi "gemellare" di Vittorio con Paolo e viceversa, questo rimarrà tra loro due e noi non possiamo che dire grazie a entrambi per un'arte e una testimonianza civile che ha attraversato il cinema e la cultura italiana per oltre 50 anni. Ma oggi Vittorio Taviani, nato a San Miniato il 20 settembre del 1929 e spentosi a Roma dopo una lunga e dolorosa malattia che lo scorso anno aveva costretto Paolo a "debuttare" per la prima volta da solo come regista firmando "Una questione privata", ci lascia proprio col ricordo di quel film, ispirato alle storie partigiane di Beppe Fenoglio e legato a un'idea della giovinezza come al tempo delle scelte e delle utopie. Ultimo esempio del cinema e della politica così come i fratelli Taviani hanno sempre pensato e voluto insieme. Nella coppia Vittorio, che tutti riconoscevano soprattutto per il vezzo del cappello portato con orgoglio in ogni circostanza, era quello più taciturno, ma i cui silenzi si spezzavano in folgoranti battute cariche di bonaria ironia, indizio di un cuore grande e di una generosità che lasciava il passo solo a una passione politica e civile intransigente cui non aveva mai voluto abdicare. Appassionato di cinema fin da giovanissimo, insieme al fratello aveva dato vita a un cineclub nella vicina Pisa andando di pari passo tra gli studi e la discussione che ben presto fu insieme politica ed estetica. Nonostante una consuetudine con gli ormai abbandonati studi cinematografici di Tirrenia e Pisorno, l'attrazione per Cinecittà e quella Roma in cui il cinema si faceva e crescevano i movimenti di partecipazione politica, ebbe ben presto la meglio sulla "toscanità" del duo e, insieme come sempre, i due fratelli si spostarono nella capitale alla metà degli anni '50. Un loro lavoro sulla Resistenza, "San Miniato luglio '44" ebbe la collaborazione di Cesare Zavattini e la benedizione di una figura tanto carismatica li confermò tra i giovani autori di documentario. Il secondo incontro fortunato fu con Ioris Ivens che divise anche con loro la regia di "L'Italia è un paese povero" nel 1960. E l'idea del lavoro collettivo, che diventa anche palestra delle idee e delle esperienze professionali, portò i Taviani a lavorare a sei mani con Valentino Orsini per i due primi lungometraggi a soggetto, "Un uomo da bruciare" e "I fuorilegge del matrimonio" diretti tra il '62 e il '63. Ci vogliono però altri quattro anni per approdare al debutto in coppia, nel 1967, con quel "Sovversivi" che preannuncia il ribellismo del '68, prende spunto dai solenni funerali di Togliatti e vede protagonista un giovane appassionato di cinema di nome Lucio Dalla. Inutile ripercorrere oggi tutta la luminosa carriera dei Fratelli Taviani, tra il trionfo a Cannes con "Padre Padrone" (1977) con la benedizione del presidente di giuria Roberto Rossellini, fino all'Orso d'oro a Berlino per "Cesare deve morire" (2012) passando per grandi successi come "La notte di San Lorenzo", "Kaos", "Good Morning Babilonia, ma anche sperimentazioni televisive di grande respiro come "Resurrezione" diretto per la Rai nel 2001. Oggi ha soprattutto senso salutare un artista e un intellettuale che, insieme a Paolo, ha saputo raccogliere l'eredità del neorealismo senza rimanere imprigionato in una sterile replica di modelli e principi legati a un tempo diverso dal suo; un regista (e sceneggiatore di tutti i lavori della coppia) che ha preso a modello del suo fare cinema la "dittatura del vero" e ha saputo collegare la passione civile che l'animava con una sorta di "realismo magico" (espressione coniata per "La notte di San Lorenzo" ma adattabile a quasi tutti i loro film, anche quando all'origine c'è un testo letterario) che trova nella lezione dell'amatissimo Tolstoj la stella polare. Difficile immaginare un "cinema dei Taviani" oltre Vittorio; ma giusto pensare a una cultura italiana del dopo-guerra che senza di lui sarebbe stata certamente più povera. E un segno della sua eredità si ritrova anche oggi nel lavoro di sua figlia Giovanna, punto di riferimento del moderno documentario di questi anni.