ROMA. Ha mancato di pochi giorni l'appuntamento con il suo 84° compleanno Giuseppe Ferrara, "uomo contro" del cinema italiano, paladino di cause morali e politiche che segnano il suo secolo, il '900 delle grandi ideologie e delle grandi speranze. Nato a Castelfiorentino il 15 luglio del 1932, toscanaccio innamorato del sud, erede delle lezione neorealista, Giuseppe Ferrara si distingue da "ragazzo scomodo" fin dal liceo e subito dopo, alla testa di un cineclub marcatamente orientato a sinistra, si attira le attenzioni poco benevole della polizia. A Firenze si laurea con una tesi sul nuovo cinema italiano presentata da Roberto Longhi e tutta infiammata dalla passione per la realtà che maestri come Rossellini e De Sica gli hanno fatto scoprire. Ma subito dopo è già a Roma per frequentare i corsi di regia al Centro Sperimentale e nei soggiorni senesi si cimenta con i primi cortometraggi a sfondo documentario. Diplomato nel '59 si getta a capofitto nella militanza documentaria e nel corso di un decennio girerà oltre 80 opere, spesso ispirate ai temi della disuguaglianza, dei drammi che lacerano il Sud e la Sicilia, dell'omertà mafiosa. Acuto osservatore della realtà ma anche delle evoluzioni del nostro cinema si cimenta anche come critico con monografie molto tempestive su Luchino Visconti e Francesco Rosi pubblicate tra il '64 e il '65. Cesare Zavattini (con cui collabora ai "Misteri di Roma" del '63) lo induce a modificare la sua tecnica di racconto, a scoprire le riprese con la macchina in spalla, a farsi "testimone partecipe" anziché "spettatore imparziale". Da questa nuova consapevolezza che diventa anche scelta politica (sarà tra i cineasti più attivi nell'associazione degli autori, Anac) nasce lo stile che lo porterà al grande salto nel lungometraggio. Il primo film del '69 è "Il sasso in bocca" che sposa documenti d'archivio e finzione ricostruita per fotografare la realtà quotidiana della violenza mafiosa e a quei temi rimarrà a lungo legato fino al suo film più celebre e spettacolare, "100 giorni a Palermo" del 1985 con Lino Ventura nell'uniforme del generale Dalla Chiesa. Ma la tenace battaglia di Giuseppe Ferrara contro le storture della società italiana punteggia tutti i suoi lavori. Così il polemico (e censurato) "Faccia di spia" del 1975 (con Adalberto Maria Merli e Mariangela Melato in un ardito mix di documentario e finzione) rintraccia i fili oscuri dell'ingerenza dei servizi segreti e della Cia nelle vicende interne dello stato italiano fin dalla fine della guerra; mentre il vibrante "Panagulis vive" (fiction tv adattato per le sale in versione ridotta nel 1980) segue le gesta del patriota greco ucciso dal regime dei Colonnelli. Arriverà all'apice della notorietà ma anche delle polemiche con il suo "Caso Moro" del 1986 in cui Gian Maria Volonté si cala nei panni dello statista democristiano con impressionante verismo la trascina anche il film in un calco della realtà che ha ormai preso le distanze dall'oggettività documentaria per sposare un cinema di tesi e di denuncia. E' la strada che caratterizza tutta l'opera successiva di Giuseppe Ferrara, spesso realizzata grazie alla Rai, ma altrettanto spesso osteggiata in mille modi. Basta scorrere i temi delle fiction e dei film successivi per capirne le ragioni: "Narcos" sui loschi legami internazionali della droga; "Giovanni Falcone" del 1993, "Segreto di stato"(1995) sul ruolo dei servizi segreti tra la strage di Ustica e quella di Bologna, "I banchieri di Dio" del 2002 con Omero Antonutti nei panni di Roberto Calvi, l'inchiesta tv "P2 story" su Ligio Gelli, fino a "Guido che sfidò le Brigate Rosse" del 2007 sull'omicidio del sindacalista Guido Rossa. Il suo ultimo lavoro, una miniserie poliziesca "Roma nuda" scritta da Tomas Milian e girata nel 2013 resta ad oggi inedita grazie a dissesti produttivi. Il giudizio critico su Giuseppe Ferrara è sempre stato ambivalente nel corso dei decenni: applaudito per la forza visiva e tematica dei suoi documentari, amato per il coraggio delle sue scelte narrative, criticato per un verismo che sconfinava nell'imitazione della realtà, riconosciuto tardivamente per la capacità di adattare il suo linguaggio alla struttura televisiva della fiction degli anni '90. Meriterebbe oggi una riconsiderazione complessiva se non altro per la coerenza delle scelte e la capacità di rendere popolari tematiche scomode e spesso complesse come le pagine oscure della politica nazionale e per il desiderio inesausto di fare luce sui troppi misteri italiani. Uomo contro come i suoi maestri e compagni di strada (Francesco Rosi su tutti), Giuseppe Ferrara resta comunque un esemplare testimone del '900.