È dal 1989, quando aveva 66 anni, che Giorgio Albertazzi, scomparso oggi all'età di 92 anni, recitava in continue riprese «Memorie di Adriano», lo spettacolo tratto dal romanzo della Yourcenar con regia di Maurizio Scaparro, che è diventato il suo lavoro simbolo nel crescere di una coincidenza esistenziale con questo imperatore alla fine dei suoi giorni. «Facendolo parlo anche di me - confessò quando compì 90 anni - Del resto sento molto la fine della bellezza che si consuma che percorre questo testo, che coglie il momento in cui l'armonia tra corpo e anima si rompe ed entrano in conflitto. A certe battute mi sono sempre davvero emozionato, perchè mi toccano nel profondo e penso, cercando di tenermi fuori, a tutti coloro che ho visto invecchiare, alla perdita della giovinezza che ho amato tanto».
Una nota più nostalgica che malinconica andata a unirsi al suo vitalismo mai esausto, al suo spiritaccio fiorentino, al suo essere attore sino in fondo tanto da salire in palcoscenico finchè ha potuto, anche quando stava male, perchè solo lì si sentiva sempre vivo. Così era attore anche nella sua vita, seduttore di qualsiasi tipo di pubblico, in scena e fuori, e non perdeva mai l'occasione per ricordare il proprio lavoro, certe interpretazioni diventate storiche: «Recitavo, eccome recitavo!» esclamava a proposito del suo «Amleto» all'Old Vic di Londra nel 1964, culmine di una fortunata tournee europea.
Da giovane ci mise qualche anno a imparare dai grandi di allora, da Ruggeri a Benassi, e ricordava di aver speso il resto della vita a liberarsene, per arrivare a aprire «una crepa dall'interno del teatro tradizionale», come scrisse qualcuno a proposito del suo «Enrico IV» del 1983 con la regia di Antonio Calenda, in cui faceva del protagonista finto pazzo una metafora della stessa finzione dell'attore.
"Oggi la cultura italiana ha perso un grande maestro". Il presidente Siae Filippo Sugar commenta così la scomparsa del grande attore toscano. "Attore, regista, autore, Giorgio Albertazzi, con la sua voce e il suo volto, era ormai diventato per tutti gli italiani sinonimo di arte della rappresentazione e della recitazione, l'essenza stessa del teatro. La società italiana degli autori ed editori perde uno dei suoi membri e sostenitori più illustri. Il vuoto che la scomparsa di Albertazzi lascia resta e resterà incolmabile".
Una visione nuova, un'ottica personale, un sapersi mettere in gioco con quella grazia e entusiasmo che potevano anche far tenerezza, se a sostenerli non ci fosse stato un fuoco interiore e quel presentarsi come «Un perdente di successo», titolo della sua autobiografia. Si pensi alla novità delle sue interpretazioni che ne fecero un divo della Tv anni '60, tra teatro (come Romeo di Shakespeare inciampò in un cavo e dovette andare ad abbracciare Giulietta strisciando - era il 1960 e tutto si svolgeva in diretta) e sceneggiati, da L'idiota del 1959 a uno storico Dottor Jeckyll del '68 di cui firmò anche l'innovativa regia, mentre del tanto cinema lo si ricorda praticamente solo protagonista di un film come L'anno scorso a Marienbad di Alain Resnais (1961).
Nato a Fiesole il 20 agosto 1923, figlio di operai, raccontava di aver recitato sin da bambino a villa Tatti di Bernard Berenson, dove il nonno era «maestro muratore», poi a scuola per amore di una professoressa, quindi aderendo a una filodrammatica e così via. La sua carriera iniziò veramente solo nel dopoguerra, superato il triste episodio che lo vide aderire alla Repubblica di Salò nel 1943, iniziativa mai rinnegata e vista come gesto di un ragazzo ventenne patriottico e che si illude di una rivoluzione sociale, che tra l'altro nel '45 gli costò l'arresto e una condanna per collaborazionismo, due anni in prigione. Quindi, studente di architettura, dopo una piccola parte nello storico Troilo e Cressidra di Luchino Visconti, a Boboli, dal 1950 per due anni fece parte della compagnia del Teatro Nazionale diretta da Guido Salvini e il suo primo ruolo importante fu ne Il candeliere di de Musset.
Il salto vero avviene però quando nel 1956, a cominciare da Il seduttore di Diego Fabbri, comincia a far coppia con Anna Proclemer, anche sua compagna di vita, riuscendo per quasi un ventennio ad essere tra i protagonisti della vita teatrale, proponendo classici moderni (da D'Annunzio a Pirandello), sia che andasse alla scoperta di autori contemporanei (da Sartre, Camus, a Fabbri, Brusati o Moravia), sia che facesse notizia affrontando testi come Dopo la caduta dramma di Arthur Miller su Marylin Monroe con regia di Zeffirelli (1964) o facesse scandalo con La governante di Brancati e regia di Patroni Griffi, nel 1965 bloccato dalla censura per riferimenti all'omosessualità femminile. Da allora, da solo o con nuove compagne (la sua vita è costellata di compagne di scena e di vita, ma nel 2007 ha sposato Pia dèTolomei), non smette mai di recitare, inverno e estate, sempre puntando a una interpretazione di qualità, spesso più di qualità dei suoi spettacoli, almeno sino appunto all'incontro con Scaparro e la Yourcenar al Teatro di Roma, del quale diverrà nel 2003 direttore per cinque anni. Dopo il terremoto dell'Aquila recita Dante tra le macerie. Nell'Italia politicizzata del dopoguerra è sempre stato considerato un uomo legato alla destra, ma era fondamentalmente libero e ultimamente aveva confessato di aver votato Grillo, ma poi aveva aggiunto di volergli «bene a prescindere, ma non so se lo voterei ancora».
È sempre stato visto come il più inquieto dei nostri attori: «energia pura traversata da forze devianti che si riconnettono a una certa qualità sciamanica - ha scritto Davico Bonino - Ha la vocazione della fenice. Ne deriva una specie di felicità elettrica che costringe questo attore difficilmente catalogabile a spendersi in continuazione» tra progetti irrealizzati, le grandi creazioni drammatiche, gli spettacoli sbagliati, provocazioni contro ogni convenzione e routine. A chi gli chiedeva se fosse credente, replicava: «Detesto pensare che qualcuno da su ci consoli o ci punisca. Le mie consolazioni sono i miei ricordi». Ricordi legati a una vita passata a recitare sapendo che «recitare è un atto ridicolo, è mettersi alla berlina, non sapendo fare altro, uno si mette a buffoneggiare o finge di sentirsi male, di provar dolore o di essere in preda a un fou rire. E mentre agisce vede se stesso agire e questo gli dà insieme conforto e sgomento, perchè l'arte è nuda e capace solo di far domande, cui non risponde».
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