ROMA. «In Italia mi sento a casa. Questo è il Paese più bello del mondo»: ha il volto sereno e sorridente Josè Carreras, appena atterrato nella Capitale da Barcellona per partecipare domani a «Caracalla for Unicef», il concerto di beneficenza che si inserisce nel cartellone estivo
del Teatro dell'Opera di Roma e del quale sarà ospite d'onore.
A 25 anni dall'ultimo spettacolo a Caracalla, dove si era esibito con Luciano Pavarotti e Placido Domingo, il tenore spagnolo è pronto a calcare quella stessa scena con una rinnovata emozione: «Sono felice di partecipare a un evento così importante anche dal punto di vista sociale», spiega, «e poi non sono più tornato a Caracalla da quel 7 luglio 1990». «Di quel concerto - dice - conservo un ricordo straordinario, ma ho un solo rammarico: quello di non poterlo rifare mai più». Lo sguardo si incupisce ricordando i tempi passati, ma è solo un attimo: «Sono un uomo fortunato: dopo 45 anni di carriera posso ancora esibirmi», afferma con un sorriso, «alla mia età ogni cosa che si fa si apprezza di più».
Nel concerto a ingresso gratuito di domenica, finanziato dalla Ytl dell'imprenditore malese Francis Yeoh (in occasione della sua donazione all'Opera di Roma di un milione di euro e dell'ingresso nel consiglio d'indirizzo del Teatro, ndr), il tenore canterà, tra i vari brani classici del suo grande repertorio, anche Chitarra romana, perchè, spiega, «è bello interpretarla proprio qui, di fronte alla platea di Roma». E proprio per il pubblico italiano, che lui conosce bene e che tanto sostegno gli ha dimostrato nel corso degli anni, Carreras ha parole d'affetto, definendolo «preparato e leale». «Il pubblico è sempre il riflesso di ciò che accade nella società: spesso però grazie al teatro si riesce ad avere qualche ora di stimolo, per nutrirsi di speranza», afferma riferendosi alle difficoltà della crisi economica, «ma in fondo qui avete tutto, noi possiamo solo invidiarvi, perchè questa è la terra della cultura e dell'arte».
Pensando al futuro della lirica, alla quale ha dedicato tutta la vita, l'artista è convinto che «i teatri debbano aprirsi il più possibile alle nuove generazioni: bisogna avvicinare l'opera e la musica ai giovani, dare l'opportunità di conoscerli, esattamente come si fa con i musei». Quanto al repertorio, «c'è bisogno sia di grandi capolavori della tradizione che di opere nuove», dice, «per esempio sono stato felice di interpretare l'opera di Christian Kolonovits, dedicata ai bambini spariti durante la dittatura franchista, perchè io ho vissuto quel periodo». «Ma servono anche cambiamenti anche nella regia per non restare fermi a 100 anni fa», aggiunge. Quindi è favorevole
all'approccio non convenzionale delle regie contemporanee? «Va trovata una via di mezzo, e c'è un limite a tutto», spiega, «una cosa è innovare, un'altra è provocare. Alcuni registi imparano un'opera mentre la stanno provando, altri invece sono preparati, rischiano davvero e ottengono l'apprezzamento del pubblico».
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