ROMA. E' morto stamattina a Roma il regista Francesco Rosi, era nato a Napoli il 15 novembre del 1922. Uno dei grandi del cinema italiano, Leone d'oro alla carriera nel 2012, già Leone d'oro (Le mani sulla città), Palma a Cannes (Il caso Mattei), Legion d'onore, e tributi alla carriera a Locarno e Berlino, per non parlare di Grolle, David, Nastri. Si guardava indietro, come in un cannocchiale rovesciato, e vedeva un'altra Italia, un altro mondo, un'altra società, ma non ha mai smesso di sentirsi dentro il suo tempo. Francesco Rosi era nato a Napoli il 15 novembre del 1922, una manciata di mesi dopo Carlo Lizzani, appena più vecchio di Franco Zeffirelli che divise con lui gli esordi sul set di Visconti, poco dopo che Lizzani imparava invece l'alfabeto del cinema da Rossellini. A raccontarla oggi sembra la vita di artisti mitici, appena ammantati dalla gloria del loro tempo e del loro talento, ma Rosi era invece combattivo, vitale, rabbioso e generoso come i suoi film, fino all'ultimo. Appena pochi mesi fa era al Cinema America di Roma, occupato da un pugno di ragazzi appassionati di cinema, per parlare con loro di film, di vita, di politica. Al ''discepolo'' Tornatore che ancora nel bellissimo libro a quattro mani Io lo chiamo Cinematografo (Mondadori 2012) lo incitava a tornare sul set non rispondeva ''sono stanco'' ma ''il mestiere del regista richiede grande energia fisica e non so se l'avrei più. So invece che in quest'Italia è difficile fare cinema e che la realtà si degrada così in fretta che il suo passo è troppo più frettoloso di quello del cinema. Rischierei di raccontare un paese che già non c'è più''. E riguardandosi indietro aggiungeva: "Il cinema, allora, era una grande famiglia, è vero. C'era un rapporto di comprensione, anche di affetto. Poi ci sentivamo tutti parte di una grande avventura, far rivivere sullo schermo la vita." In quello stesso 2012 Francesco Rosi era sul palcoscenico della Mostra di Venezia per ricevere il Leone d'oro alla carriera. Un premio in più in una carriera che già gli aveva regalato il Leone d'oro per Le mani sulla città, la Palma di Cannes per Il caso Mattei, la Legion d'onore, i tributi alla carriera di Locarno e Berlino, per non parlare di Grolle, David, Nastri, caduti a pioggia su ogni titolo della sua formidabile filmografia. Anche in occasione dell'ultimo premio veneziano la sua lezione è venuta forte e decisa: ''Fare cinema - ha detto - significa contrarre un impegno morale con la propria coscienza e con lo spettatore. Gli si deve l'onestà di una ricerca della verità senza compromessi. Più ci si addentra nel reale e più si ha coscienza che la certezza del vero e del giusto non esiste. Ma quel che conta è la nitidezza della ricerca''. Difficile negare che in film come Le mani sulla città, Salvatore Giuliano, Il caso Mattei, Uomini contro, Lucky Luciano, fino ai profetici Cadaveri eccellenti e Dimenticare Palermo, l'aspirazione etica sia andata di pari passo con un'arte cristallina. Figlio di borghesi napoletani (il padre gestiva una compagnia marittima), laureato in legge, attratto da una carriera di illustratore per bambini che gli rimarrà in fondo all'anima, il giovane Francesco ha per amici intellettuali e politici come Raffaele La Capria, Giuseppe Patroni Griffi, Giorgio Napolitano, Luchino Visconti. E' il grande regista, incontrato a Roma subito dopo la guerra, a scovare la sua piena vocazione al cinema. Rosi sarà assistente di Visconti per La terra trema (1948), sceneggiatore di Bellissima (1951), collaboratore in Senso (1953). Tre anni dopo dirige il suo primo film, La sfida. Se l'esordio è debitore del taglio neorealista del primo Visconti e il successivo I magliari fa i conti con la trasformazione di quel movimento verso diversi territori del realismo, con Salvatore Giuliano (1962) nasce uno stile che è originale e molto imitato. Si è detto film-inchiesta perchè la dittatura della verità porta il regista a muovere sempre da indagini scrupolose, ma con gli occhi di oggi quei film segnano lo spartiacque tra il cinema-documento e il cinema della finzione. Non era stato così ai tempi di Paisà e Ladri di biciclette in cui il tema della distanza tra verità e ricostruzione non si poneva. Rosi lo pone facendosi forte della tenacia del giornalista, del rivendicato soggettivismo dello storico e della libertà dell'artista. Nasce con lui una nuova nozione di realismo che si confronta anche con lo stile del miglior cinema americano: una scuola che Rosi non ha mai negato, tanto da non farsi scrupolo di averne i grandi interpreti come Rod Steiger, quando altrove ricorreva a non professionisti o al suo attore-feticcio Gian Maria Volontè. E non a caso chi parla di una scuola italiana del noir, accosta il nome di Rosi (e di Sciascia) al percorso del noir americano d'impronta sociale. Sui film di Francesco Rosi, in una carriera che non può essere certo limitata alle grandi inchieste (basta pensare al filone storico da Uomini contro a La tregua, da Cadaveri eccellenti a Cristo si e' fermato a Eboli), si e' scritto moltissimo. Tra tutti il bellissimo saggio-intervista di Michel Ciment e la biografia, quasi il romanzo di una vita "catturato" da Giuseppe Tornatore in un dialogo che rivaleggia con quelli tra Bogdanovich e Ford, fra Truffaut e Hitchcock. Ma nessuna parola può restituire la sensazione tattile di quelle grandi mani, quasi da artigiano, la fierezza dello sguardo che sembra scrutare la verità nascosta delle cose, la testa da generale romano e il passo da napoletano illuminista. Quando entrava in una stanza sembrava occuparla tutta e intorno a lui si faceva subito silenzio. Il vecchio leone, rimasto solo con la figlia Carolina dopo la tragica scomparsa della moglie Giancarla due anni fa, non ha mai smesso di ruggire. Se n'è andato in silenzio, nella sua bella casa-studio a Via Gregoriana, circondato dall'affetto di amici e discepoli che di lui hanno amato la schiettezza, il rigore, la passione e l'umanità. Ma Rosi amava ridere, la sua prima folgorazione cinematografica era stata Charlot, suonava e ballava la musica di Count Basie, ascoltava i Jethro Tull, Chet Baker, la grande opera. E per lui la scena - si trattasse della piana di Portella della Ginestra rievocata per Salvatore Giuliano o la Spagna reinventata in una memorabile Carmen - aveva i colori di Napoli. Una città mai dimenticata, sempre narrata con spietata verità e affetto.