PALERMO. Ha trascorso una vita a combattere il cancro e oggi rappresenta il simbolo della speranza di vittoria contro questa malattia, una forza per migliaia di malati della sua lunga carriera scientifica. Ma Umberto Veronesi scorre in un lampo tutta la sua vita professionale e oggi la conclude con un atto di scoraggiamento e di negazione della fede: «Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato la prova della non esistenza di Dio». Una frase da agnostico, dopo un inizio molto religioso: «Come puoi credere nella Provvidenza o nell'amore divino quando vedi un bambino invaso da cellule maligne che lo consumano giorno dopo giorno davanti ai tuoi occhi? Ci sono parole in qualche libro sacro del mondo, ci sono verità rivelate che possano lenire il dolore dei suoi genitori? Io credo di no, e preferisco il silenzio, o il sussurro del non so». Il più noto oncologo italiano, direttore scientifico dell'Istituto europeo di oncologia, scrive Il mestiere di uomo, in uscita oggi per Einaudi, e racconta come nel corso degli anni nonostante l'infanzia da «inappuntabile chierichetto» si sia consolidata la sua convinzione agnostica. «Non saprei dire qual è stato il mio primo giorno senza Dio. Sicuramente dopo l'esperienza della guerra non misi mai più piede in una chiesa, ma il tramonto della fede era iniziato molto prima. Durante il liceo fui bocciato due volte, ero un discolo in senso letterale: non andavo bene a scuola. Di fatto sono sempre stato anticonformista, ribelle ai luoghi comuni e alle convenzioni accettate acriticamente, e questa mia natura mal si conciliava con l'integralismo della dottrina cattolica che era stata il fondamento della mia educazione di bambino». A incrinare il rapporto di Veronesi con la fede è la guerra: «Oltre alle stragi dei combattimenti, ho toccato con mano anche la follia del nazismo e non ho potuto non chiedermi, come fece Hannah Arendt prima e Benedetto XVI molti anni dopo: “Dov'era Dio ad Auschwitz?”». Poi la decisione di intraprendere la carriera medica: «La scelta di fare il medico è profondamente legata in me alla ricerca dell'origine di quel male che il concetto di Dio non poteva spiegare. Da principio volevo fare lo psichiatra per capire in quale punto della mente nascesse la follia gratuita che poteva causare gli orrori di cui ero stato testimone. Avvicinandomi alla medicina, però, incappai in un male ancora più inspiegabile della guerra, il cancro». Che rapporto c'è, secondo Veronesi, tra dolore e fede? Il dolore diventa tangibile, assume sembianze reali, ed è in quella circostanza che «diventa molto difficile identificarlo come una manifestazione del volere di Dio. Ho pensato spesso che il chirurgo, e soprattutto il chirurgo oncologo, abbia in effetti un rapporto speciale con il male. Il bisturi che affonda nel corpo di un uomo o di una donna lo ritiene lontano dalla metafisica del dolore. In sala operatoria, quando il paziente si addormenta, è a te che affida la sua vita. L'ultimo sguardo di paura o di fiducia è per te. E tu, chirurgo, non puoi pensare che un angelo custode guidi la tua mano quando incidi e inizi l'operazione, quando in pochi istanti devo decidere cosa fare, quando asportare, come fermare un'emorragia. Ci sei solo tu in quei momenti, solo con la tua capacità, la tua concentrazione, la tua lucidità, la tua esperienza, i tuoi studi, il tuo amore o anche la tua carità per la persona malata». Classe 1925, Veronesi ha vissuto la realtà italiana dalla seconda guerra mondiale a oggi. «Ho scelto la medicina per capire l'origine di quel male che la religione non poteva spiegare», racconta i suoi incontri con migliaia di pazienti, il suo rapporto con il dolore. Le sue riflessioni con la perdita della fede cristiana ma con un’incrollabile fede scientifica nella vittoria prima o poi dell'uomo sul cancro: se è stato vinto il male di Auschwitz, sarà vinto anche il cancro: «Anche se cinquant'anni fa si ammalava di tumore un italiano su 30, e oggi si ammala uno su 3 e in un futuro prossimo ne resterà colpito uno su 2, dei 20 milioni di italiani che oggi sviluppano un tumore nel corso della loro vita, il 70% dei casi - circa 14 milioni - potrebbero essere salvati con la prevenzione». Resta la posizione del Dio passivo di fronte al tumore che non salva nemmeno i bambini, ma si potrebbe allargare all'infinito l'inerzia divina, il Dio che non muove una mano per salvare un pullman pieno di bambini che scivola nel burrone, un Dio pieno di «disimpegno» in tante altre occasioni. «Legittima la posizione del professor Veronesi sul nascondimento di Dio e sulla sua assenza dalla scena del dolore - afferma dalla Facoltà teologica della Sicilia il preside, professor Rino La Delfa - e ne apprezzo la portata. La fede è manifestata sia nella forma di una dichiarazione di abbandono, il credo, come nel caso del cosiddetto credente, sia nella forma di invocazione, una domanda che impegna radicalmente chi la pone, come nel caso del cosiddetto miscredente o agnostico. In entrambi i casi è una manifestazione di fede». Per il teologo, «il cristiano tesse la sua fede a partire da un evento contraddittorio: la Croce di Cristo, ovvero un caso di sofferenza. Una sofferenza in cui Dio non interviene per liberare il condannato, ma per convivere la medesima condizione. La Croce da cui ogni uomo è raggiunto come attraverso un ponte, per Cristo in effetti non è stata la conclusione ma la meta, la fase decisiva e culminante della sua vita e della sua azione». Il professor La Delfa aggiunge che «nel Vangelo di Marco, Gesù muore nell'abbandono, e nessun intervento consolatore del Padre viene a interrompere l'esperienza del silenzio di Dio. Gesù ha vissuto la sua morte nel senso dell'assenza di Dio. Certamente Dio interverrà, ma non per procurare a Gesù un lieto fine».