Giovedì 02 Maggio 2024

Il lento declino della Vucciria, da Guttuso ai flash dei turisti

PALERMO. Vero è. Le balate della Vucciria non si asciugano mai. Per citare un famoso modo di dire palermitano. Prima erano i pescivendoli a inumidire marciapiedi e strade del mercato. Lo facevano, e qualcuno lo fa ancora, per mantenere vive occhiate, triglie, sgombri. Adesso il marmo si bagna, ogni notte, di birra caduta dalle bottiglie a collo lungo in mano a ventenni, trentenni e quarantenni assetati di movida. O, peggio, il pavimento viene invaso da pipì, con la puzza che all’alba copre gli ultimi residui odori di canne e stigghiole. Di quelle piazze e di quei vicoli che trasudano storia e fascino decadente da ogni rudere. Evoluzione o declino? «Morte», non ha dubbi lo storico Gaetano Basile. «E il degrado – spiega – comincia proprio dal celebre quadro di Guttuso». Ma come? «Sì, proprio così. L’opera d’arte ha avuto, a lungo termine, effetti negativi sulla bellezza del luogo». Anno 1974, il dipinto del pittore bagherese ha un impatto dirompente. Altro che spot pubblicitario, altro che campagna promozionale per il turismo a Palermo. La Vucciria diventa famosa dapprima in tutta Italia, poi anche oltre le Alpi. «Gli intellettuali scoprono questo suk tra via Roma e la Cala – racconta Basile – ed è l’inizio della rovina. Ma attenzione, non per colpa di chi viene a curiosare per la prima volta tra le bancarelle, bensì per i commercianti che perdono la loro vera essenza e diventano comparse di loro stessi». Arrivano gli americani con le loro macchine fotografiche e i putiari si mettono in posa, arrivano giornalisti da tutte le parti del mondo alla ricerca di folk e trovano pane per i loro denti in quegli antichi venditori che si trasformano in attori. Ciak, si abbannìa! «Così – puntualizza Basile – quello che era un posto sanguigno, genuino muta in una sorta di set cinematografico. L’effetto però dura poco. La finzione a lungo non può durare e il mercato comincia a perdere identità. Era un miscuglio di colori, i più variegati, adesso è spettrale». C’è rabbia e nostalgia nelle parole di Basile, settantasette anni fra pochi giorni. «Io oggi odio il mercato della Vucciria, preferisco il Capo e Ballarò animati sempre da spirito commerciale. Mi piange il cuore, a piazza Caracciolo ho vissuto i miei anni felici, andando per taverne, ho conosciuto la gioia del masciddaru, del pane ca’ meusa». Ha conosciuto le salsamenterie (vecchie salumerie) dei Catania e dei Censuales. Uomini che utilizzavano raffinate tecniche di marketing («Signora, mentre aspetta tastassi ‘sto cacio»). Ha visto i pescivendoli Mancino e Sampino inventarsi una strategia sensazionale nel periodo natalizio. «Sistemavano una barca al centro della piazza, la riempivano di acqua di mare e mettevano lì dentro i capitoni appena pescati, così la gente se li portava a casa ancora vivi». Non ci dovrebbero essere più, per fortuna, gli spinguliaturi, professionisti dello scippo che con leggiadria sfilavano portafogli, orologi e altri pezzi di valore e li portavano in un magazzino che si trova accanto alla scalinata che da via Roma scende a piazza Caracciolo. «Una specie di ufficio oggetti smarriti, la gente derubata andava lì – spiega Basile – si faceva restituire la refurtiva e in cambio lasciava soldi». Insomma, il confine tra lecito e illecito è da sempre molto labile alla Vucciria, che ai tempi fu anche il centro delle sigarette di contrabbando. C’era Tinì che era nascosto sempre da una montagna di mortadelle e che quando passavano gli scippatori urlava ai clienti «Rintra, ca chiuovi». Una volta era luglio e c’era un sole che spaccava le balate. «Mia moglie – ricorda Basile – che non è italiana, ma capiva già benissimo il dialetto mi disse ‘Piove? Ma è pazzo?’ E io: zitta!». C’erano il nonno e il padre e c’è ancora “Rocky” Basile, il venditore di focacce con la milza, che di notte si mette in corso Vittorio Emanuele e fa affari con i picciotti presi da fame chimica o alcolica. È in vita anche il panificio Cimino. «Aveva una particolarità: oltre alle brioche calde – rammenta sempre Gaetano Basile – avevano anche la panna ghiacciata». E resistono anche altre insegne storiche. «Il problema – conclude Basile - è che ora quelle che magari prima erano taverne si chiamano wine bar. E non si può far rivivere artificialmente un luogo. Ho provato anche io diverse volte a proporre delle iniziative, ma mi sono arreso definitivamente nel 2000, quando durante una festa appena cominciata i commercianti chiusero alle otto di sera e ci lasciarono soli. La Vucciria è imbalsamata. Non c’è più l’aria di una volta, anzi dico una cosa le balate della Vucciria sono asciutte». O bagnate, ma non solo dall’acqua dei pescivendoli.

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