PALERMO. Vero è. Le balate della Vucciria non si asciugano mai. Per citare un famoso modo di dire palermitano. Prima erano i pescivendoli a inumidire marciapiedi e strade del mercato. Lo facevano, e qualcuno lo fa ancora, per mantenere vive occhiate, triglie, sgombri. Adesso il marmo si bagna, ogni notte, di birra caduta dalle bottiglie a collo lungo in mano a ventenni, trentenni e quarantenni assetati di movida. O, peggio, il pavimento viene invaso da pipì, con la puzza che all’alba copre gli ultimi residui odori di canne e stigghiole. Di quelle piazze e di quei vicoli che trasudano storia e fascino decadente da ogni rudere. Evoluzione o declino? «Morte», non ha dubbi lo storico Gaetano Basile. «E il degrado – spiega – comincia proprio dal celebre quadro di Guttuso». Ma come? «Sì, proprio così. L’opera d’arte ha avuto, a lungo termine, effetti negativi sulla bellezza del luogo». Anno 1974, il dipinto del pittore bagherese ha un impatto dirompente. Altro che spot pubblicitario, altro che campagna promozionale per il turismo a Palermo. La Vucciria diventa famosa dapprima in tutta Italia, poi anche oltre le Alpi. «Gli intellettuali scoprono questo suk tra via Roma e la Cala – racconta Basile – ed è l’inizio della rovina. Ma attenzione, non per colpa di chi viene a curiosare per la prima volta tra le bancarelle, bensì per i commercianti che perdono la loro vera essenza e diventano comparse di loro stessi». Arrivano gli americani con le loro macchine fotografiche e i putiari si mettono in posa, arrivano giornalisti da tutte le parti del mondo alla ricerca di folk e trovano pane per i loro denti in quegli antichi venditori che si trasformano in attori. Ciak, si abbannìa! «Così – puntualizza Basile – quello che era un posto sanguigno, genuino muta in una sorta di set cinematografico. L’effetto però dura poco. La finzione a lungo non può durare e il mercato comincia a perdere identità. Era un miscuglio di colori, i più variegati, adesso è spettrale». C’è rabbia e nostalgia nelle parole di Basile, settantasette anni fra pochi giorni. «Io oggi odio il mercato della Vucciria, preferisco il Capo e Ballarò animati sempre da spirito commerciale. Mi piange il cuore, a piazza Caracciolo ho vissuto i miei anni felici, andando per taverne, ho conosciuto la gioia del masciddaru, del pane ca’ meusa». Ha conosciuto le salsamenterie (vecchie salumerie) dei Catania e dei Censuales. Uomini che utilizzavano raffinate tecniche di marketing («Signora, mentre aspetta tastassi ‘sto cacio»). Ha visto i pescivendoli Mancino e Sampino inventarsi una strategia sensazionale nel periodo natalizio. «Sistemavano una barca al centro della piazza, la riempivano di acqua di mare e mettevano lì dentro i capitoni appena pescati, così la gente se li portava a casa ancora vivi». Non ci dovrebbero essere più, per fortuna, gli spinguliaturi, professionisti dello scippo che con leggiadria sfilavano portafogli, orologi e altri pezzi di valore e li portavano in un magazzino che si trova accanto alla scalinata che da via Roma scende a piazza Caracciolo. «Una specie di ufficio oggetti smarriti, la gente derubata andava lì – spiega Basile – si faceva restituire la refurtiva e in cambio lasciava soldi». Insomma, il confine tra lecito e illecito è da sempre molto labile alla Vucciria, che ai tempi fu anche il centro delle sigarette di contrabbando. C’era Tinì che era nascosto sempre da una montagna di mortadelle e che quando passavano gli scippatori urlava ai clienti «Rintra, ca chiuovi». Una volta era luglio e c’era un sole che spaccava le balate. «Mia moglie – ricorda Basile – che non è italiana, ma capiva già benissimo il dialetto mi disse ‘Piove? Ma è pazzo?’ E io: zitta!». C’erano il nonno e il padre e c’è ancora “Rocky” Basile, il venditore di focacce con la milza, che di notte si mette in corso Vittorio Emanuele e fa affari con i picciotti presi da fame chimica o alcolica. È in vita anche il panificio Cimino. «Aveva una particolarità: oltre alle brioche calde – rammenta sempre Gaetano Basile – avevano anche la panna ghiacciata». E resistono anche altre insegne storiche. «Il problema – conclude Basile - è che ora quelle che magari prima erano taverne si chiamano wine bar. E non si può far rivivere artificialmente un luogo. Ho provato anche io diverse volte a proporre delle iniziative, ma mi sono arreso definitivamente nel 2000, quando durante una festa appena cominciata i commercianti chiusero alle otto di sera e ci lasciarono soli. La Vucciria è imbalsamata. Non c’è più l’aria di una volta, anzi dico una cosa le balate della Vucciria sono asciutte». O bagnate, ma non solo dall’acqua dei pescivendoli.