Giovedì 19 Settembre 2024

La famiglia di Sharon: «Non si parli di raptus»

Suisio, il paese dove viveva Moussa Sangare, dopo aver ricevuto una denuncia per maltrattamenti da sua madre e sua sorella. E' quanto emerso nel corso delle indagini che hanno portato al fermo del presunto omicida di Sharon, 30 agosto 2024. ANSA/Michele Maraviglia

Nessuno sostenga che Moussa Sangare ha ucciso Sharon Verzeni in preda ad un raptus. Dopo aver difeso in ogni modo Sergio Ruocco, e aver ringraziato inquirenti ed investigatori per il lavoro fatto, la famiglia della barista di 33 anni uccisa a Terno d’Isola chiede che la realtà non venga distorta. Anche perché, sottolinea il legale Luigi Scudieri, ci sono tutti gli elementi per sostenere che quello di Sangare sia un delitto pianificato. «Ho sentito parlare in queste ore di “raptus improvviso”, di “scatto d’ira” e “assenza di premeditazione”. Tuttavia - sono le parole che la famiglia consegna all’avvocato - faccio notare che il signor Moussa Sangare sarebbe uscito di casa con ben quattro coltelli e prima di uccidere Sharon ha avuto tutto il tempo di minacciare anche altre due persone. Che farebbero bene a farsi avanti». Il trentunenne, in effetti, avrebbe raccontato durante l’interrogatorio che quella sera aveva deciso di uccidere qualcuno e che, prima di incontrare la barista in via Castegnate a Terno d’Isola, nella Bergamasca, avrebbe puntato la lama contro altri due ragazzini. E dello stesso avviso del legale sono anche molti degli abitanti del vicino paese di Suisio, dove Sangare abitava con la mamma e la sorella. I vicini di casa, in particolare, raccontano che avevano «paura» di lui, descrivendolo come una persona violenta, con una «rabbia accumulata“: «dentro di sé - dicono oggi - ha il male». Il delitto non è stato certo un fulmine a ciel sereno per Clotilda, residente nella stessa palazzina dove da anni abitava Sangare. E anche lei ripete più volte ai cronisti di «non parlare di raptus». La donna, che vive insieme al marito e al figlio nell’appartamento al piano di sotto rispetto a quello della famiglia originaria del Mali, dice che negli ultimi tempi la situazione era molto peggiorata. Sangare «era fuori di sé. Non era una persona gentile, faceva violenza ai suoi familiari. Alle tre di notte sembrava che venisse giù il soffitto». Indicando il cortile interno della palazzina, ha poi spiegato che lo trovava lì «strafatto» nel cuore della notte e che per andare a casa era costretta a «passargli sopra». Numerose segnalazioni, a quanto racconta la vicina di casa, sarebbero state inviate nell’ultimo anno per descrivere la situazione. «Sono andata personalmente dal sindaco, dagli assistenti sociali, ho chiamato i vigili e i carabinieri. Tutti sapevano, ma qui deve succedere il fatto perché qualcuno intervenga». La salute mentale del trentunenne, che chi lo conosceva ha definito «completamente bruciato» e probabilmente con problemi di droga, sarà senz’altro un elemento decisivo in vista di un eventuale processo. Il legale dei Verzeni si è detto «molto stupito» per il fatto che «si sia parlato di “verosimile incapacità” subito dopo il fermo, prima ancora di un esame completo di tutti gli atti». E dal canto suo la presidente della Società italiana di Psichiatria (Sip) Liliana Dell’Osso, ha affermato che «non emergono al momento elementi indicativi di una patologia mentale per l’assassino di Sharon Verzeni». Secondo la professionista, quanto ricostruito fino a questo momento non sembrerebbe «puntare verso un disturbo affettivo o psicotico in fase acuta, vale a dire verso una patologia mentale». Potrebbe però emergere, invece, «un disturbo legato a personalità antisociale che non è motivo di incapacità di intendere o volere».

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