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Grasso sui nuovi metodi della mafia a Palermo: «Da Provenzano in poi, i clan cercano di non farsi vedere»

Nell'intervista l'ex procuratore ed ex presidente del Senato ricorda quando i ragazzi di Addiopizzo si presentarono nel suo ufficio: «Erano in tre e mi spiegarono la loro intenzione di aprire un locale, ma soprattutto mi chiesero cosa avrebbero dovuto fare nel caso di un tentativo di estorsione. Volevano aiuto e da lì nacque l’idea»

Pietro Grasso

Ha visto in faccia la mafia più violenta, quella degli omicidi eccellenti e delle bombe. Dalla prima inchiesta sul delitto di Piersanti Mattarella al maxiprocesso, Pietro Grasso, ex procuratore e politico, oggi presidente della fondazione Scintille di futuro (ispirata al fuoco dell’accendino di Giovanni Falcone) ha affrontato le diramazioni di Cosa nostra nella società e nell'economia. Quella dove più tangibilmente i cittadini sentono l'effetto di estorsioni e pressioni. Ma un giorno di 20 anni fa qualcosa di inatteso avvenne.

Un gruppo di ragazzini si presentò nel suo ufficio, quando era procuratore capo a Palermo e lanciò una idea che allora sembrava folle. Che ricordo ha di quel momento?

«Quella mattina la città si svegliò con i manifesti listati a lutto appesi alle saracinesche dei negozi del centro. Erano in tre e mi spiegarono la loro intenzione di aprire un locale, ma soprattutto come avrebbero poi dovuto comportarsi se si fosse presentato qualcuno a chiedere il pizzo. Volevano aiuto e da lì nacque l’idea, visto che intanto numerose persone cominciarono ad aderire all’iniziativa "Pago chi non paga". Chiamai l’allora direttore del Giornale di Sicilia, chiedendo lo spazio per potere pubblicare tutti i nomi di cittadini e commercianti schierati contro le estorsioni, in modo da fare cadere pubblicamente il velo di omertà sul fenomeno. Erano un migliaio. Poi la nascita dell’associazione e la storia che porta ad oggi».

Al compimento del primo decennale dell'associazione, la città era fresca dell'operazione antimafia Apocalisse e lei, questa volta da presidente del Senato, invitò i commercianti a trasformare l'offesa di vedersi «togliere» dei soldi in una occasione di riscatto. Si erano fatti già passi avanti?

«Si fece un grande percorso, estendendo agli imprenditori l’appello a denunciare. L’aiuto dello Stato, la costituzione di parte civile nei processi, le condanne pesanti anche a 7 anni per gli emissari che venivano poi riconosciuti dal commerciante, hanno fatto la loro parte. Ma ho percepito il vero cambiamento quando in alcune intercettazioni di personaggi vicini alla mafia che materialmente andavano a esigere. Si diceva: “Da quello non ci andiamo perché è vicino ad Addiopizzo e ci denuncia”. Magari cercavano di riscuotere quando c’era la festa di Santa Rosalia e per le luminarie o per altro, si poteva camuffare l’estorsione mensile sistematica in piccole, minori estorsioni».

Soldi sporchi. Come le mafie riciclano miliardi e inquinano l'economia mondiale è uno dei tanti libri da lei scritti. Ma oggi, che a Palermo i locali della movida stanno soprattutto conquistando l'asse Maqueda-Vittorio Emanuele non c'è il pericolo che piccole botteghe o magazzini possano essere acquisiti con la «forza» dalla criminalità organizzata per riposizionarsi nel tessuto commerciale cittadino?

«Dopo i Corleonesi, la mafia ha cambiato pelle. Già con Provenzano il metodo è cambiato, di fatto si è tornati all’antico con l’idea di inabissamento, di non farsi vedere. Così come c’è stato il periodo in cui, anziché imporre il pizzo con le intimidazioni incendiarie, si passò all’attacco nelle serrature delle saracinesche. Un modo per far notare meno la violenza sul territorio, secondo quella strategia della sommersione seguita fino a Matteo Messina Denaro: fare affari e infiltrarsi nell’economia grazie ai rapporti con la pubblica amministrazione, con gli imprenditori e con la politica».

Modalità, quindi, che lei riconosce come attuali...

«Certo, è questo significa che è possibile che ci sia il pericolo che la criminalità si infiltri in queste attività. Del resto, le mafie vanno dove si può fare lucro e non a caso per anni gli affari sono stati spostati nelle zone più ricche del Nord Italia. Io spero che ci sia oggi però una maggiore coscienza e si può arginare questo fenomeno collaborando tutti. Più si denuncia e più si può creare una barriera. Libero Grassi fu ucciso perché fu lasciato solo, dobbiamo fare il contrario».

Ma molti dopo le denunce si sono sentiti abbandonati dallo Stato... Non si rischia di tornare indietro?

«Lo Stato e l’associazione possono fare fino ad un certo punto. È stata creata la possibilità di avere un risarcimento, cosa che in altri Paesi non esiste. È vero che è un iter burocratizzato, che si perde molto tempo e magari si può migliorare accelerando le procedure e dare maggiore aiuto a chi deve fare ripartire l’attività commerciale».

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