Quella che verrà ricordata domani, al centro Don Pino Puglisi di Castellammare del Golfo, è la storia di un tentato femminicidio, avvenuto nei pressi di Carini il 20 dicembre del 2003. Protagonista di questo dramma assurdo, nella settimana in cui si celebra la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, è la palermitana Barbara Bartolotti che in quel tragico giorno di 19 anni fa aveva appena 29 anni. La donna, che era sposata e mamma di due bambini, lavorava come segretaria contabile in un'impresa edile, condividendo la sua stanza d'ufficio con altri colleghi. Tra essi c'era un giovane di Marineo, all'apparenza molto mite e riservato.
«Aveva gli occhialini e un'aria da intellettuale, di uno che veniva da una famiglia perbene - racconta Barbara Bartolotti a Gds.it -. Non aveva mai mostrato segni di squilibrio, né aveva mai fatto avances. Uno di quelli da cui non ti aspetti che possa mostrarsi per quello che non è, sembrava affidabile. Mi accompagnava spesso in banca o in uffici, pertanto capitava non di rado che io salissi in macchina con lui».
In quel 20 dicembre, Barbara riceve una telefonata. E' il collega di Marineo che vuole venire a Palermo per parlare di qualcosa che non può dirle al telefono. La 29enne accetta, non immaginando lontanamente ciò che le sarebbe accaduto da lì a poche ore, qualcosa che le avrebbe cambiato e segnato la vita, per sempre.
«Mio marito e i miei figli erano al circo, io avevo intenzione di andare in giro per i negozi perché volevo comprare un ciuccio e delle scarpine da mettere sotto l'albero di Natale. Ero incinta - racconta la donna - e volevo fare una sorpresa ai miei familiari che ancora non ne erano a conoscenza. Accettai di incontrarlo, e mi venne a prendere nei pressi di Tommaso Natale. Mi disse che avremmo fatto un giro per il quartiere. In realtà imboccò la statale verso Carini. In via Cristoforo Colombo gli dissi di fermare l'auto perché dovevo rispondere a mio marito».
Su quel marciapiede inizia il calvario di Barbara Bartolotti. La donna non riuscì a rispondere al coniuge perché all'improvviso sentì un fortissimo colpo alla testa. Non ebbe il tempo di capire cosa fosse successo perché a distanza di poco sentì un altro lancinante dolore al cranio, poi altri due. Quando si girò, stramazzando al suolo, vide gli occhi sgranati e pieni di sangue del suo assalitore che aveva un martello in mano. «Mi disse più volte: non posso averti, quindi ti uccido». Con la lama di un coltello che aveva nel giubbotto, ignorando le urla, il terrore e la disperazione di Barbara, la trafisse nel ventre, mettendo fine, di fatto, alla sua gravidanza. Poi andò verso l'auto e dal cofano prese una tanica di benzina e due giornali. Dopo aver versato il liquido infiammabile su quello che era l'oggetto, e non la donna, dei suoi desideri, quella che anche senza provarci non avrebbe mai potuto dirgli di sì, appiccò il fuoco con un accendino.
«Bastardo, perché lo fai, gli ripetevo, e gridavo il nome dei miei figli. C'era un fascio di luce su di me e su di lui. Da credente mi dava speranza, ma pensavo anche che avrei lasciato questa terra. Rantolavo, gridavo, mi contorcevo - racconta la donna - poi ho capito che l'unico modo per salvarmi sarebbe stato quello di fingermi morta, perché lui aspettava che io lasciassi questa terra, era ciò che voleva. Vedendomi inerme accese la macchina e andò via».
Barbara, col sangue che le esce copioso dal cranio spaccato, col ventre ferito e le ustioni sulla pelle, ha la lucidità di rotolare sull'asfalto e di buttarsi all'interno di una strada adiacente l'autostrada, passando anche sopra un filo spinato che le provoca ulteriore dolore e lacerazione. Scappando da un possibile ritorno del suo aggressore, la vittima di quella violenza corre in autostrada, in controsenso, alla ricerca di aiuto, ma non si ferma nessuno. »La gente aveva paura, ero una candela cremosa che spruzzava sangue, annerita, nuda».
Dalla Statale due ragazzi vedono la scena, si fermano con la loro auto e la chiamano, chiedendo chi fosse e che ci facesse lì. Dopo aver raccontato per sommi capi ciò che le era successo, gridando a gran voce più volte il nome di chi l'aveva ridotta in quel modo, Barbara riesce a risalire nuovamente sulla statale, ripassando sopra quel pungente filo spinato. «Trovai due angeli, due musicisti che per puro caso si trovavano lì a quell'ora. Mi hanno aiutato, salvata, non preoccupandosi di sporcare di sangue i sedili della loro auto».
La 29enne palermitana, trasportata d'urgenza al Civico, in coma, dopo sei operazioni e sei mesi di calvario in ospedale, uscirà dal pericolo di morte, ma il suo corpo e il suo viso resteranno sfigurati per sempre. Il suo aggressore, reo confesso - ci racconta la donna - viene dapprima condannato a 21 anni, ma poi grazie al suo stato di incensurato, al patteggiamento allargato e all'indulto, finirà per scontare solo pochi mesi agli arresti domiciliari. Adesso è sposato con due figli e lavora in banca.
«Io sono stata licenziata, anche perché il titolare dell'azienda per cui lavoravo era un parente del mio aggressore e da allora non ho più trovato lavoro, ho un corpo deturpato e un figlio ucciso - dice amareggiata -. Da qualche anno ho aperto un'associazione, Libera di vivere, e sono stata ospite in diverse trasmissioni nazionali. Anche nelle scuole e in altri eventi vengo invitata spesso per raccontare la mia storia. Lo faccio volentieri, perché quello che è successo a me non deve accadere mai più a nessuno. Due anni dopo quel terribile evento - conclude commossa Barbara - sono rimasta nuovamente incinta. E' nata Federica ed è bellissima. Non perché l'ho fatta io ma perché lei rappresenta la rinascita e la continuazione della mia vita, quella che per metà, purtroppo, è morta in quel tragico pomeriggio del 2003».
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