Quello di Alma Shalabayeva non fu un sequestro di persona. A decretarlo è stata la Corte d’appello di Perugia che, annullando le condanne del primo grado, ha assolto con la formula più ampia, «perché il fatto non sussiste», da quel reato Renato Cortese, il poliziotto degli arresti di Bernardo Provenzano e Giovanni Brusca, Maurizio Improta e un gruppo di loro collaboratori con i quali, nel maggio del 2013, guidavano la squadra mobile e l’ufficio immigrazione della questura di Roma. Una sentenza accolta da un abbraccio tra l'ex questore di Palermo Cortese e Improta, poi apparso visibilmente commosso. Ma anche dagli applausi di tanti loro colleghi presenti in aula per sostenerli. «Ho pianto tante volte da solo, l’ultima volta ieri. Un pensiero va a mio padre che subì lo stesso tormento quando ero prefetto a Napoli e ne uscì assolto. Si vede che la Corte d’appello di Perugia ha letto bene le carte, ha analizzato, ha capito di avere a che fare con persone perbene» il commento di Improta. Per l’avvocato Ester Molinaro difensore di Cortese insieme a Franco Coppi la sentenza «è una pagina di grande giustizia». «E’ però anche la conferma - ha aggiunto - che questo processo non doveva proprio essere iniziato. Il fatto non sussiste significa che l’impianto accusatorio è stato completamente sradicato dimostrando che la procedura era corretta». Oltre a Improta e Cortese l’assoluzione ha riguardato l’allora giudice di pace Stefania Lavore (dall’accusa di falso mentre è stata confermata l’estraneità al sequestro che era già nella sentenza di primo grado), gli ex funzionari della mobile romana Luca Armeni e Francesco Stampacchia e quelli dell’ufficio immigrazione Vincenzo Tramma e Stefano Leoni. Tutti dichiarati estranei alle accuse per le quali erano stati condannati. Era il 28 maggio del 2013 quando Alma Shalabayeva venne fermata dalla polizia mentre si trovava in una villa a Casalpalocco, a Roma, dove gli agenti stavano cercando il marito, il dissidente kazako Mukhtar Ablyazov. Alla donna venne contestato il possesso di un passaporto falso e, pochi giorni dopo, fu espulsa insieme alla figlia di sei anni. Entrambe vennero imbarcate e fatte partire su un aereo diretto in Kazakistan. Espulsione revocata il 5 luglio, dopo che Ablyazov si era appellato all’allora premier Letta. Pochi giorni dopo la procura di Roma aprì un’inchiesta su presunte irregolarità nell’espulsione di Shalabayeva, fascicolo poi assegnato per competenza ai pm di Perugia. Nel dicembre del 2013 l’allora ministro degli esteri, Emma Bonino, riuscì ad ottenere il rientro in Italia delle due espulse alle quali venne riconosciuto lo status di rifugiate. Per i giudici di primo grado il trattenimento di Alma Shalabayeva e della figlia Alua, fu un evento che «sarebbe preferibile definire un ‘crimine di lesa umanità» e rappresentò «una ipotesi di patente violazione dei diritti fondamentali della persona umana». Una sentenza impugnata dagli imputati davanti alla Corte d’appello di Perugia che, nel gennaio scorso, ha riaperto il dibattimento accogliendo la richiesta delle difese di chiamare a testimoniare in aula, tra gli altri, l’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone e il pm Eugenio Albanonte. Durante la sua deposizione, Pignatone ha detto di essere rimasto «convinto della falsità del passaporto» di Shalabayeva sulla base del quale venne adottata l’espulsione e che quindi fosse «dovere concedere il nulla osta». «Non ho mai ricevuto pressioni da parte di Renato Cortese per il rilascio del nulla osta» nei confronti di Shalabayeva e «Maurizio Improta non l’ho proprio sentito quel giorno» ha sottolineato Pignatone in aula.