Hanno visto affondare il rimorchiatore con a bordo i loro «fratelli di mare» davanti ai loro occhi, in poco più di 20 minuti, senza riuscire a fare niente per salvarli. Tre sono morti e altri due, a 48 ore dal naufragio, risultano ancora dispersi. Hanno visto che il rimorchiatore imbarcava acqua «in modo tanto rapido che non ce l’ha fatta a mantenere la linea di galleggiamento», colando a piccolo nei mille metri di profondità di quel tratto di Adriatico, a circa 50 miglia dalla costa barese. I componenti dell’equipaggio del pontone AD3 sono gli unici testimoni oculari del naufragio. Sono arrivati stamattina nel porto di Bari a bordo del pontone-galleggiante che era agganciato al rimorchiatore prima che questo collassasse e le loro dichiarazioni sono state raccolte una dopo l’altra dagli uomini della Capitaneria di porto che, su delega della Procura di Bari, indagano sul naufragio.
«Ho detto io di buttarsi in acqua, ma non ce l’hanno fatta i ragazzi» ha detto Carmelo Sciascia, il comandante del pontone, spiegando di non aver visto i colleghi cadere in mare e morire, tranne una lucetta di un giubbotto salvagente, quella che ha consentito al comandante di salvarsi, unico superstite di quelli che erano a bordo del mezzo affondato. «Non lo abbiamo visto, lo ha preso una nave che ho chiamato io per avvicinarsi e prenderlo perché vedevamo una lucetta - ha spiegato Sciascia - , perché i giubbotti hanno le lucette che si accendono quando si arriva in acqua. Se il personale avesse indossato i giubbotti si sarebbero salvati tutti, ma non ci sono riusciti perché è stata troppo rapida la cosa e adesso si deve capire perché è stata così rapida». Dei tre cadaveri recuperati in mare dai mezzi di soccorso, infatti, solo uno indossava il giubbotto. «Ci si è spaccato il cuore, ma non abbiamo potuto fare niente. E’ successo all’improvviso, in 20-25 minuti» ha spiegato poi il tecnico del pontone, Onorio Olivi. «Abbiamo visto che imbarcava acqua e non c’è stato niente da fare, neanche il tempo di poterli aiutare», chiarendo che secondo lui «le condizioni meteo non c’entrano niente, probabilmente c’è stato un inconveniente tecnico alla struttura. Noi abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Abbiamo messo anche un gommone in acqua rischiando la vita di quelli che andavano sul gommone, perché lì c’erano i nostri fratelli, purtroppo non siamo riusciti a fare niente. Il senso di impotenza ci distrugge tutti perché sei lì e non puoi fare niente».
Oltre a raccogliere i racconti degli undici a bordo del pontone, le indagini si arricchiranno nei prossimi giorni delle verifiche tecniche sull’AD3. La pm Luisiana Di Vittorio ha infatti disposto il sequestro probatorio del mezzo, con l’obiettivo di stabilire se siano state rispettate tutte le misure di sicurezza, comprese le fasi di imbarco, e quelle successive nella fase di evacuazione. L’obiettivo è capire innanzitutto cosa abbia causato quella che si presume una grossa falla nello scafo tale da causare un affondamento tanto improvviso e veloce. Falla che probabilmente non sarà mai documentata, dal momento che il relitto si trova in fondo al mare. Nel registro degli indagati, con l’ipotesi di reato di cooperazione colposa in naufragio e omicidio colposo plurimo, la Procura ha iscritto il comandante superstite, il 63enne catanese Giuseppe Petralia, tuttora ricoverato in terapia intensiva cardiologica nell’ospedale Di Venere di Bari con un edema polmonare causato dall’acqua ingerita, e l’armatore, il 78enne Antonio Santini, legale rappresentante della società Ilma di Ancona, proprietaria del rimorchiatore affondato e del pontone.
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