A poche ore dall’inizio del processo di appello sull’espulsione di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, rimandata a casa nel maggio 2013 insieme alla figlia Alua, arriva un documento del ministero dell'Interno che potrebbe aprire nuovi scenari.
Si tratta della risposta che il Viminale fornisce a una interrogazione del deputato siciliano del Pd Carmelo Miceli nella quale attesta che la procedura che portò all’espulsione della donna il 31 maggio 2013 fu corretta.
Per quel caso, in primo grado, fu condannato a 5 anni, tra gli altri, l'ex questore di Palermo Renato Cortese, che in passato aveva dato la caccia a latitanti di Cosa nostra fino alla cattura nel 2006 di Bernardo Provenzano, e che all'epoca dei fatti guidava la squadra mobile di Roma. Dopo la sentenza, che risale all'ottobre del 2020, Cortese fu rimosso dall'incarico.
Adesso il Viminale, nel suo documento firmato dal sottosegretario Nicola Molteni, scrive che "dagli atti in possesso della Questura di Roma, durante l'espletamento dell'iter procedimentale finalizzato all'emanazione del decreto di espulsione adottato dalla Prefettura di Roma, la cittadina straniera non ha riferito informazioni o prodotto documenti che consentissero una diversa definizione della relativa posizione amministrativa sul territorio dello Stato, né ha, tantomeno, fatto richiesta di protezione internazionale". Nella risposta all'interrogazione di Miceli viene anche considerato che Alma Shalabayeva andava ritenuta "a rischio di fuga" non disponendo di un passaporto valido. "Conseguentemente, l'esecuzione dell'espulsione adottata nei suoi confronti non può che avvenire mediante accompagnamento immediato alla frontiera".
Nella sua interrogazione, il deputato Miceli chiedeva anche gli eventuali accertamenti, effettuati nel periodo compreso tra l'emissione del decreto di espulsione e la sua revoca in autotutela. "La sua esatta identificazione è divenuta possibile solo grazie a una nota verbale dell'ambasciata del Kazakistan in data 30 maggio 2013, in cui si dava conto del rilascio alla signora in questione, di un passaporto kazako, dalla medesima mai dichiarato né esibito - è la risposta scritta del Viminale - Solo il successivo 11 luglio, all'atto della notifica del ricorso avverso il decreto di espulsione, depositato dai legali della donna al giudice di pace, si apprendeva della esistenza di titoli di soggiorno rilasciati alla signora Alma Shalabayeva dalle autorità britanniche e lettoni, atteso che tra gli allegati del ricorso figuravano anche copie dei citati titoli di soggiorno, recapitate con fax in data 3 giugno 2013 ai legali italiani da un notaio di Ginevra, che ne certificava anche l'autenticità. Il 12 luglio 2013, il prefetto di Roma, preso atto dell'avvenuta produzione in sede giurisdizionale dei suddetti titoli di soggiorno nel territorio nazionale, disponeva in autotutela la revoca del provvedimento di espulsione".
Il processo di appello
Lunedì, intanto, il processo approda davanti alla Corte d'appello di Perugia. I giudici di secondo grado dovranno pronunciarsi sulla sentenza di primo grado che oltre a Renato Cortese condannò a cinque anni di reclusione e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici anche Maurizio Improta, al tempo capo dell'l'Ufficio immigrazione.
Furono condannati a due anni e mezzo l'allora giudice di pace Stefania Lavore, a cinque anni i funzionari della mobile romana Luca Armeni e Francesco Stampacchia e a quattro anni e tre anni e sei mesi quelli dell'Ufficio immigrazione Vincenzo Tramma e Stefano Leoni. Per Cortese, Armeni, Stampacchia, Tramma, Leoni e Improta la condanna è per sequestro di persona. Gli imputati furono invece assolti da una decina dei capi d'accusa per falso ideologico, abuso e omissione d'atti d'ufficio.
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