«Il detenuto per un reato di associazione mafiosa e/o di contesto mafioso può essere premiato se collabora con la giustizia ma non può essere punito ulteriormente, negandogli benefici riconosciuti a tutti, se non collabora». Questo il principio indicato dalla Corte costituzionale, con la sentenza depositata oggi, nella quale spiega perchè, nelle scorse settimane, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, primo comma, dell’ordinamento penitenziario là dove non contempla che, in determinate condizioni, il giudice possa concedere al detenuto il permesso premio.
L’incostituzionalità della norma, ritenuta dai giudici della Consulta, «in contrasto con i principi di ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena» (articoli 3 e 27 della Costituzione), è stata estesa, spiega la Corte, a tutti i reati compresi nel primo comma dell’articolo 4 bis, oltre a quelli di associazione mafiosa e di «contesto mafioso», anche puniti con pena diversa dall’ergastolo. Resta ferma, emerge dalla sentenza (di cui è relatore il giudice Nicolò Zanon), la «presunzione di pericolosità» ma «non in modo assoluto perchè può essere superata se il magistrato di sorveglianza ha acquisito elementi tali da escludere che il detenuto abbia ancora collegamenti con l’associazione criminale o che vi sia il pericolo del ripristino di questi rapporti».
Dunque, non basta un regolare comportamento carcerario - la cosiddetta «buona condotta» - o la mera partecipazione al percorso rieducativo, nè una semplice dichiarazione di dissociazione. «La presunzione di pericolosità - spiega Palazzo della Consulta - non più assoluta ma relativa, può essere vinta soltanto qualora vi siano elementi capaci di dimostrare il venir meno del vincolo imposto dal sodalizio criminale».
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