Alvin Berisha, il bimbo di 11 anni di origine albanese portato via dall'Italia nel dicembre del 2004 dalla mamma che voleva unirsi all'Isis, è tornato oggi a Roma. La madre sarebbe morta in un'esplosione, mentre lui era finito nel campo profughi di Al Hol, a nord est della Siria, dove è stato ritrovato. Alvin è stato trasferito con un volo di linea dell'Alitalia (AZ 827) giunto poco dopo le 7.00 a Fiumicino da Beirut.
Il piccolo può finalmente riabbracciare il papà che non si era mai rassegnato a non rivederlo, dopo il rapimento il 17 dicembre 2014 ad opera della mamma Valbona Berisha, strappato anche alle due sorelle e inserito nello 'Stato islamico'.
Alvin appena sceso dall'aereo è apparso sereno e sorridente. Vestito con jeans, giubbotto blu ed un cappellino rosso, a Fiumicino ha trovato ad accoglierlo il padre e le due sorelle. Ora, a quanto si è appreso, la Polizia di frontiera sta procedendo per il disbrigo delle formalità burocratiche e per le procedure di affidamento del minore al padre.
Ha vissuto cinque anni in Siria, ha conosciuto gli orrori del Califfato, ma la tenacia di investigatori, magistrati, 007, donne e uomini della Croce Rossa e dell'Unhcr, lo hanno riportato in Italia.
LA STORIA. Dopo la caduta dell'Isis e la morte della madre di origine albanese, il bimbo viveva nell'area 'orfani' di Al Hol, campo profughi nel nord est della Siria sotto il controllo dei curdi e che ospita oltre 70 mila persone, in gran parte compagne e figli di combattenti jihadisti morti o in prigione. Là il ragazzino è stato individuato a luglio, dopo complesse ricerche dello Scip della Polizia e del Ros dei carabinieri, e riconosciuto grazie ad una foto e ad un dettaglio fisico dal padre Afrim (c'è stata anche un comparazione fisionomica della Polizia scientifica).
Il padre più volte in questi anni è partito da Barzago (Lecco) per cercarlo e che a settembre, anche grazie a troupe e giornalisti de 'Le Iene', era riuscito anche a parlarci, ma non a portarlo via dal campo perché mancava, tra l'altro, una "richiesta di ricongiungimento".
IL BLITZ. Il bambino, poi, in questi giorni è stato prelevato da Al Hol con un'operazione non priva di rischi, a cui hanno partecipato anche uomini dell'Aise con la collaborazione di autorità albanesi (il premier Edi Rama ha voluto ringraziare Giuseppe Conte) e curde, trasferito fino a Damasco da dove poi ha raggiunto l'ambasciata italiana a Beirut. Anche se non parla quasi più italiano, "ricorderebbe le sue origini" e "l'esistenza di due sorelle", ha raccontato un investigatore davanti al gup di Milano Guido Salvini che, nel procedimento aperto a carico della madre per sottrazione di minori, sequestro di persona e terrorismo internazionale, dispose l'attivazione delle ricerche della donna e del figlio anche alla luce della disfatta dello Stato islamico. Accertamenti seguiti passo passo dal capo del pool dell'antiterrorismo milanese Alberto Nobili.
Ci sarà, poi, anche la necessità di sentire il bambino in un'audizione protetta, perché sarebbe stato testimone diretto della morte della madre, ha messo a verbale l'investigatore del Ros che ha seguito tutta l'indagine, in un "non meglio precisato scontro a fuoco", mentre lui sarebbe stato salvato "probabilmente da forze curde". Tra l'altro, ha detto ancora l'investigatore, il piccolo aveva già raccontato "che il suo nome da convertito è Yussuf", nome che ha trovato "riscontro in informazioni che aveva assunto" il padre stesso nei mesi scorsi.
I FIGLI DELL'ISIS. La Croce Rossa internazionale parla di 28mila bambini di oltre 60 paesi, piccoli senza colpe trascinati da padri e madri nell'inferno siriano: sono i figli dell'Isis che dopo il disfacimento dello Stato Islamico vivono nei campi profughi dove sono detenuti i combattenti sopravvissuti e le loro mogli. L'undicenne albanese nato a Lecco era uno di loro. Perché gli italiani figli del jihad sono almeno altri 7. Su tre di loro, in particolare, è concentrata l'attenzione del Ros e della procura di Milano: sono i figli di Alice Brignoli e Mohammed Koraichi, lei italiana lui marocchino con cittadinanza italiana che hanno lasciato Bulciago in provincia di Lecco per unirsi all'Isis nel 2015. Entrambi si trovano nel campo di Al Hol. "Stiamo svolgendo una serie di attività già messe in atto per l'11enne per cercare di riportarli in Italia in modo che possano essere portati a giudizio - dice una fonte qualificata - per i bambini dovrà esserci un'attenzione particolare da parte del mondo civile, per capire come reinserirli nella società e dar loro un futuro diverso".
I foreign fighters italiani o legati all'Italia partiti per i teatri di guerra - stando ai dati di Antiterrorismo e Procura nazionale antimafia ed antiterrorismo - sono circa 140, 25 dei quali italiani o naturalizzati italiani. Cinquanta sarebbero morti (4 italiani o naturalizzati) mentre altri 8 sono rientrati in Europa e sono monitorati costantemente. Nei campi in Siria ce ne sarebbero cinque: e oltre ad Alice e suo marito altre due sono donne. Si tratta di Sonia Khediri, italo-tunisina che viveva nel trevigiano, partita per la Siria nel 2014 a 17 anni e moglie di Abu Hamza al Abidi - un pezzo grosso di Daesh ucciso in combattimento - e di Meriem Rehaily, 23enne padovana di origine marocchina che ha una condanna per arruolamento con finalità di terrorismo. Entrambe avrebbero due figli ed entrambe hanno fatto sapere di voler tornare.
Che il futuro di quei bambini, di tutti e 28mila, sia un grande problema da affrontare per le democrazie occidentali, ne è ben consapevole il presidente della Croce Rossa internazionale e di quella italiana Francesco Rocca, che al confine tra Siria e Libano ha accolto l'undicenne. "I governi dei paesi degli stranieri presenti nei campi in Siria devono agire per alleviare la sofferenza di queste persone vulnerabili. Siamo consapevoli della complessità della situazione e delle preoccupazioni legittime - dice - ma questi timori devono essere bilanciati con la necessità di trattare le persone umanamente".
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