Lunedì 23 Dicembre 2024

Trattativa Stato-Mafia, al via a Palermo il processo di appello

Comincia davanti alla Corte d’assise d’appello di Palermo presieduta da Angelo Pellino, il processo per quella che è stata definita la trattativa Stato-mafia. Un dibattimento che prende il via a poco più di un anno dalla sentenza di primo grado che, condannando a pene pesantissime tutti gli imputati chiave tranne l’ex ministro Nicola Mancino, che venne assolto, segnò un punto a favore della Procura, confermando in pieno l’impianto dell’accusa. Il verdetto sancì che la trattativa tra pezzi delle istituzioni e la mafia, termine semplicistico che traduce una contestazione ben più complessa, ci fu. E che a portarla avanti furono, fino al 1993, i vertici dei carabinieri del Ros, e, successivamente Marcello Dell’Utri. In sintesi, secondo la corte d’assise che celebrò il primo dibattimento, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, ufficiali dei carabinieri accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato, si fecero portatori presso le istituzioni del messaggio dei clan, un messaggio intimidatorio fatto di stragi come quella in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino e morti e volto a indurre lo Stato a più miti consigli nella politica di contrasto a Cosa nostra. Perciò concorrono nell’accusa con i capimafia Totò Riina, nel frattempo morto, Nino Cinà e Leoluca Bagarella. Perché "trattando» e dialogando con i mafiosi, per il tramite del sindaco Vito Ciancimino, e «rappresentando» le loro istanze al governo, di fatto rafforzarono e aiutarono Cosa nostra. Dal '93 il ruolo di «cinghia di trasmissione» tra clan e pezzi di Stato fu ricoperto da Marcello Dell’Utri, anche lui accusato di minaccia a Corpo politico dello Stato. Allora il premier era Silvio Berlusconi e a essere condizionato dalle minacce mafiose fu il suo governo. La ricostruzione dei giudici fu questa e le pene furono esemplari: 12 anni a Mori, Subranni, Dell’Utri e al boss Antonino Cinà, medico di Riina e uomo del papello, l’elenco con le richieste del boss allo Stato per fare cessare le bombe. Ventotto anni al capomafia Leoluca Bagarella, cognato del padrino corleonese uscito dal processo con una dichiarazione di estinzione del reato per morte del reo. Otto anni a De Donno, l'ufficiale che con Mori incontrava Ciancimino a Roma. Sorte diversa per l’altro imputato eccellente: Nicola Mancino, che rispondeva di falsa testimonianza. Assolto con formula piena: non mentì ai giudici negando di avere saputo da Claudio Martelli degli incontri tra il Ros e Ciancimino fin dal '92. Otto anni a Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, condannato per aver calunniato l’ex capo della polizia Gianni de Gennaro, assolto dall’accusa di concorso in associazione mafiosa. Prescritte le accuse per il pentito Giovanni Brusca, quello che definì Mancino "terminale della trattativa» che rispondeva di minaccia a Corpo politico dello Stato. Nè i pm né la procura generale hanno appellato l’assoluzione di Mancino e la prescrizione delle accuse a Brusca che quindi non saranno imputati al processo d’appello. Domani davanti alla corte presieduta da un magistrato di grande esperienza - sue le sentenze degli omicidi Rostagno e De Mauro - ci saranno Mori, De Donno, Cinà, Bagarella, Dell’Utri, Subranni e Ciancimino. Riina nel frattempo è deceduto, ma il suo legale ha comunque presentato ricorso chiedendo l’assoluzione nel merito.

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