Per essere risarcito, il tradimento dell'obbligo di fedeltà deve essere plateale e configurarsi con modalità molto offensive per chi lo subisce: se invece la relazione 'extra' è discreta, addirittura "confessata" solo dopo la separazione, allora nessun risarcimento danni può essere chiesto al fedifrago. Il tradito deve tenersi il "dispiacere". Lo sottolinea la Cassazione respingendo il ricorso di Gianfranco L. un avvocato romano che voleva essere risarcito dalla moglie Catia I., dal suo amante Andrea B. (un collega della donna) e addirittura dal datore di lavoro - un grande gruppo assicurativo - che secondo lui era colpevole "di non aver evitato che tra i dipendenti si instaurassero relazioni lesive del diritto alla fedeltà coniugale".
Gli 'ermellini' hanno escluso che il datore possa "ingerirsi" nelle scelte di vita dei dipendenti perché violerebbe la loro privacy. L'amante poi non può mai essere chiamato in causa dato che "non è soggetto all'obbligo di fedeltà". Nemmeno la moglie paga, se è una infedele 'felpata' e una saggia rea confessa tardiva. Condannato per lite temeraria. Gli unici casi in cui chi è tradito può chiedere i danni al coniuge infedele, è quando di fronte agli altri viene lesa la sua dignità o il suo onore, spiega la Cassazione nel verdetto 6598.
Per cui se la "vittima dell'infedeltà ne abbia conoscenza dal coniuge (e non da terzi) e in una conversazione privata (e non aperta al pubblico ascolto) i limiti dell'offesa non sono oltrepassati". Anche l'amante - il terzo incomodo - non rischia dato che ha "semplicemente esercitato il suo diritto, costituzionalmente garantito, alla libera espressione della propria personalità, diritto che può manifestarsi anche nell'intrattenere relazioni interpersonali con persone coniugate". Per essere condannato a risarcire i danni, l'amante deve fare cose come "vantarsi della conquista nell'ambiente di lavoro comune" alla vittima dell'infedeltà, o "diffondere le immagini" del tradimento. In tutte le altre circostanze, "il comportamento dell'amante è inidoneo a integrare gli estremi del danno ingiusto". Ma allora, ha detto con spirito del paradosso Gianfranco L. ai giudici della Cassazione - contestando la sentenza della Corte di appello di Roma che non lo aveva risarcito - vuol dire che esiste "l'infedeltà legittima".
Non proprio, ma occorre rendersi conto che la legge - ha sottolineato la Cassazione - "non tutela il bene del mantenimento della integrità della vita familiare fino a prevedere che la sua violazione di per sé possa essere fonte di una responsabilità risarcitoria". Le persone sono libere, c'è il "diritto ad autodeterminarsi ed anche la stessa libertà di porre fine al legame familiare, riconosciuta nel nostro ordinamento fin dal 1970", gli hanno ricordato le toghe di Piazza Cavour. Gianfranco L. aveva chiesto circa 15mila euro di risarcimento, dei quali un terzo per la depressione che gli era venuta e il resto per danni morali. Non solo non vedrà un euro, ma è sempre stato condannato a pagare le spese legali di Catia, dell'amante e del gruppo di assicurazioni. Di più, l'amante - anche lui avvocato - ha ottenuto la condanna del suo 'rivale' per aver intentato una lite temeraria.
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