«Continuerò a combattere sicuro di essere nel giusto, di aver rispettato la leggi e, soprattutto, la mia etica professionale» ha detto il generale Mario Mori, nel suo primo commento alla sentenza della Corte d’assise di Palermo che lo ha condannato a 12 anni nel processo sulla trattativa stato-mafia. «Sono sereno - ha aggiunto parlando all’assemblea del Partito Radicale - e non ho nessuna paura».
«Non accetto di essere considerato un traditore dello Stato, un fellone come si diceva una volta e continuerò a lottare fino in fondo certo che alla fine vincerò - ha proseguito Mori - Sono partito dalla parte della giustizia - ha spiegato Mori - e mi trovo dall’altra parte: questo è doloroso per un ufficiale dei carabinieri. Da 15 anni faccio l’imputato e sono incazzato, ma sono un agonista, ho bisogno di un nemico, le battaglie mi danno forza».
Il generale ha quindi ricostruito le sue vicende processuali individuando nell’inchiesta cosiddetta mafia-appalti del 1989 il punto di partenza della frattura tra procura di Palermo e Ros dei carabinieri.
«Noi abbiamo fatto sempre il nostro dovere, non abbiamo nulla da rimproverarci e faremo appello. Altri invece si devono vergognare di quello che hanno fatto», ha detto l’ex ufficiale del Ros Giuseppe De Donno - collaboratore del generale Mario Mori - condannato a 8 anni nel processo sulla trattativa Stato-mafia.
Al processo, si è lamentato De Donno a margine dell’assemblea del Partito radicale cui ha partecipato insieme allo stesso Mori, «oltre 200 documenti e 50 testi a nostro favore non sono stati ammessi, abbiamo fatto il nostro lavoro con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, usando le armi che lo Stato ci dà».
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